Dinanzi al, neo imperialismo americano proclamato da J.D. Vance a Monaco, i nodi della debolezza europea sono venuti al pettine. La situazione peggiore la fronteggiano paesi come Francia, Germania e Spagna. Sta meglio la Polonia, mentre il governo italiano si trova in un solco tra vantaggio e rischio
L’esordio alla conferenza internazionale di Monaco dell’amministrazione Trump ci mostra il nuovo volto del potere della Casa Bianca. Il discorso del vicepresidente J.D. Vance è durissimo ed è tutto rivolto contro le classi politiche europee. L’ex romanziere ha propinato agli europei una sorta di vademecum populista-conservatore, dove attacca con forza aspetti della politica interna dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri.
Propone una lezione di democrazia e libertà secondo le categorie trumpiane in cui mette nel mirino la regolamentazione europea dei social network, l’ambientalismo, il potere dei giudici, l’eccessivo lassismo verso l’immigrazione, la necessità di integrare i partiti di destra radicale come AfD nel nuovo ordine continentale. Nemmeno gli inglesi, storici e vicinissimi alleati di Washington, esterni all’UE, sono stati risparmiati dagli strali di Vance. Raramente si era visto un tale livello di ingerenza nella politica interna europea da parte degli Stati Uniti, mai in modo così esibito. Ma soprattutto quello che doveva essere un discorso sulla sicurezza viene subordinato ad una sorta di mappa politica che gli stati europei dovrebbero seguire.
Il messaggio di Vance sembra essere: gli europei devono adeguarsi, anche sul piano delle priorità politiche e dell’assetto interno, al nuovo corso americano. Questa appare la condizione necessaria per sedersi al tavolo delle trattative. Il sotto testo è che l’influenza americana negli affari europei potrebbe dispiegarsi in modo ancor più aggressivo nel caso in cui i governi scegliessero di non allinearsi, ma anzi di reagire e danneggiare aziende e obiettivi americani tramite nuovi dazi e regole. È un atteggiamento che fa il paio con quello di Peter Hegseth, il nuovo segretario alla difesa del governo americano, che ha chiesto agli europei di arrivare a spendere il 5% del proprio PIL nella difesa. Che ciò si avveri è quasi impossibile, e anche l’amministrazione Trump ne è al corrente, ma l’approccio duro dimostra che l’asticella da cui partire a discutere è posta molto in alto dagli americani. Questi due interventi sono poi integrati dall’azione del Presidente stesso che ha saltato a pié pari i paesi europei nella negoziazione della pace in Ucraina. Trump sembra voler trattare solo con quelli che ritiene essere i grossi calibri della politica mondiale, quali Putin e Xi, mentre gli europei sono intendenza che dovrà seguire. Il presidente americano si muove secondo una logica imperiale e imperialista che riconosce soltanto i suoi pari.
Radiografia dell’Europa
I nodi della debolezza europea vengono al pettine, tutti i governi dovranno fare i conti con il nuovo scenario. Ad oggi la situazione peggiore la fronteggiano paesi come Francia, Germania e Spagna. Macron sembra essere il figlio di una stagione politica oramai al tramonto, gode di una legittimazione popolare ridotta al lumicino e fa i conti con l’instabilità politica dell’assemblea nazionale; la Germania si ritrova in questa temperie senza governo e soprattutto senza le prospettive di un nuovo esecutivo forte, poiché ci sarà la ripetizione di una delle coalizioni centripete già viste negli scorsi anni e che hanno fatto dell’immobilismo il loro punto programmatico principale; la Spagna ha un governo molto spostato a sinistra rispetto agli orientamenti dell’opinione pubblica, Sanchez non è certo un alleato stretto di Trump, la maggioranza parlamentare è risicata. Reagire con forza per contrastare le politiche americane è difficile in queste condizioni, anche perché una azione di forza vera significherebbe affrontare problemi economici, come l’alzamento di barriere protezionistiche, o fare grandi passi avanti nell’integrazione europea col rischio di esporsi alla reazione delle opposizioni.
In posizione migliore sembrano esserci la Polonia, che è il paese più avanzato sul piano degli investimenti in difesa e riesce anche a crescere economicamente, e l’Italia, con un governo di destra e una premier che sembrano godere delle simpatie della nuova amministrazione. Ma anche per Meloni lo scenario non è privo di incognite. Il solco diplomatico tra America ed Europa non è mai stato così ampio e la premier si trova nel mezzo. Un vantaggio, ma anche un rischio. Se ci sarà una reazione di forte opposizione alla linea americana degli altri governi dei grandi paesi europei, da cui Meloni non è particolarmente amata per la sua provenienza politica, ella potrà scegliere di accodarsi perdendo però l’ambizione di diventare la “grande mediatrice”, con la speranza di rientrare in gioco più avanti da protagonista al tavolo delle trattative. Oppure potrà scegliere di smarcarsi dalla reazione degli altri governi europei per mettersi dalla parte della Casa Bianca, magari ottenendo qualche sconto economico, ma col rischio di restare in disparte in Europa.
Se invece la contromossa europea sarà morbida, significherà che nessuno vuole una tensione diplomatica forte, o può permettersela, con Washington in questo momento e tutti saranno pronti a venire incontro a Trump su dazi, regole e difesa. In questo caso si potrebbe andare in ordine sparso nelle trattative, Meloni potrà ottenere buone condizioni per l’Italia ma come tutti gli altri rischia di fronteggiare difficoltà di bilancio. Arriva, in definitiva, un banco di prova per la premier che fino ad oggi ha ottenuto proprio nella politica estera i suoi maggiori successi grazie all’abilità di saper giocare con ambiguità tra la sua visione politica e la realtà del potere.
© Riproduzione riservata