- È morto Leonardo Del Vecchio, l’imprenditore che dal nulla ha creato la più grande società italiana: EssilorLuxottica (“EL”) vale oggi più di Eni, Enel o IntesaSanpaolo.
- Mps ha annunciato il nuovo piano industriale che, grazie all’ennesimo aumento di capitale (e soldi pubblici), cerca di uscire da una crisi che si trascina da dieci anni.
- Eni ha deciso di ritirare dalla prevista quotazione Plentitude, la società in cui ha conferito le sue attività nell’energia rinnovabile, e che dovrebbe rappresentare il futuro verde del gruppo.
È morto Leonardo Del Vecchio, l’imprenditore che dal nulla ha creato la più grande società italiana: EssilorLuxottica (“EL”) vale oggi più di Eni, Enel o IntesaSanpaolo. Poco prima Mps ha annunciato il nuovo piano industriale che, grazie all’ennesimo aumento di capitale (e soldi pubblici), cerca di uscire da una crisi che si trascina da dieci anni; ed Eni ha deciso di ritirare dalla prevista quotazione Plentitude, la società in cui ha conferito le sue attività nell’energia rinnovabile, e che dovrebbe rappresentare il futuro verde del gruppo.
Importanti eventi societari che fanno venire in mente Il Buono, il Brutto e il Cattivo del famoso film. C’è il buono che l’imprenditoria italiana sa dare al Paese; il brutto spettacolo dello sperpero di soldi pubblici per tenere a galla Mps; e la cattiva decisione di Eni che si illude di affrontare la transizione ambientale con mere operazioni finanziarie.
Il buono: EssilorLuxottica
I meriti di Del Vecchio sono così evidenti e noti che è difficile aggiungere qualcosa. Ma riguardano la sua straordinaria storia, il passato glorioso della società. Più interessante guardare al futuro. L’aumento del valore di una società può essere creato in tre modi: crescita organica, ovvero vendere di più senza ridurre i margini; crescita tramite acquisizioni; e aumento del multiplo a cui gli utili vengono valutati dal mercato. Del Vecchio li ha usati tutti e tre.
Prima c’è stata la rapida crescita organica, ma per andare oltre una certa dimensione servono le acquisizioni, che per Luxottica sono state prima orizzontali (altri marchi di occhiali), poi a valle nella distribuzione, e infine a monte con il produttore di lenti Essilor.
La strategia di crescita ha mirato a creare un gruppo integrato verticalmente, anche per aumentare il controllo sui margini permesso dall’integrazione.
Questa strategia non è più adeguata per il futuro perché, una volta raggiunta l’integrazione verticale e ottenuto un notevole potere di mercato, le acquisizioni giocano un ruolo marginale. EL dovrà trovare una strategia alternativa per convincere il mercato che sarà in grado di continuare a crescere con successo, perché sono le aspettative a determinare in gran parte il valore di una società.
Del Vecchio ha trasformato gli occhiali da oggetto utile a bene di lusso e, allo stesso tempo, ha creato per l’azienda un’immagine legata al settore degli strumenti medicali.
È stato cruciale per il successo di EL perché il mercato l’ha sempre valutata (oggi 23 volte gli utili attesi 2022) a forte premio rispetto all’indice americano (oggi 17 volte) ed europeo (13 volte), in linea con quelli dei grandi gruppi europei del lusso e dei principali produttori Usa di strumenti medicali. Perché questa storia di successo perduri, dovrà dunque continuare innovare e puntare su tecnologia e strategie di marketing vincenti.
Difficile pronosticare se il nuovo capo azienda, Francesco Milleri, ci riuscirà. In passato, Del Vecchio ha bruciato diversi amministratori delegati e Milleri, da quanto leggo, non ha esperienze pregresse di gestione di grandi imprese ed è stato scelto sulla base di relazioni personali: criterio inusuale per un grande società. EL è efficiente e ha un forte posizionamento: difficile far male. Ma il lungo termine è un’incognita.
Tanta attenzione in Italia è stata dedicata agli eredi e alla struttura di governance. Lo statuto della holding richiedendo larghissime maggioranze, o addirittura unanimità, tra gli eredi per le decisioni rilevanti sembra avere il principale scopo di obbligarli alla convivenza per impedire la diluizione del pacchetto di controllo in EL. Esperienza insegna però che così si rischia di ingessare la società nei momenti di crisi o proprio quando c’è invece bisogno di rapidità.
Il brutto: Mps
Per anni lo Stato, azionista di maggioranza, ha cercato invano di porre fine alla crisi di Mps, ribadendo che la strada obbligata era la fusione con un’altra banca, e cacciando un amministratore delegato che aveva appena predisposto il piano 2021-2025 per continuare da sola. Ma oggi lo Stato sottoscrive gran parte di un nuovo aumento da 2,6 miliardi, per finanziare un nuovo piano 2022-2026, presentato dal nuovo amministratore e che prevede di continuare da soli. Coerenza e linearità non sono mai stati il piatto forte degli interventi pubblici in Italia.
Non metto in discussione le capacità del nuovo amministrate delegato: il problema è a monte. Il piano è identico a tanti altri.
Punta soprattutto sulla vendita di prodotti alle famiglie (credito al consumo, mutui, gestioni, assicurazioni) ma l’omogeneità dei prodotti bancari e la concorrenza rendono difficile recuperare la clientela persa e aumentare i margini su quella rimasta; senza contare che Mps distribuisce in gran parte prodotti di terzi, avendo venduto le proprie per far cassa.
Punta poi sull’ennesima pulizia dei vecchi crediti deteriorati, sempre con l’aiuto della Amco di Stato, prevedendo che il costo del credito per i prestiti in bilancio, ovvero l’impatto degli accantonamenti sul margine di interesse, resti costante fino al 2026: con le crescenti attese di recessione, mi sembra un’ipotesi eroica. C’è poi il mancato contributo dei fondi della Bce a tasso sussidiato, che anche nel piano neutralizzano il beneficio dei tagli del personale (che il piano chiama eufemisticamente “optimize and redeploy workforce”) e degli sportelli (“streamline branch network”). Toccato con mano nella trattativa con Unicredit che Mps ha, di fatto, un valore negativo, il Tesoro, invece mettere uno stop alle perdite, investe nuovo capitale contando su un risanamento improbabile per venderla un domani con profitto. Ahimè un’altra Alitalia.
Sotto la spinta degli investitori, tutte le grandi compagnie petrolifere cercano di riconvertirsi, tagliando gli investimenti nella ricerca e sfruttamento delle energie fossili, e usano i cash flow generati dai giacimenti esistenti per finanziare gli investimenti nelle rinnovabili.
In tutto questo c’è anche una questione di multipli: poiché gli utili dal fossile valgono per il mercato molto meno di quelli nel rinnovabile, il valore di una compagnia petrolifera è determinato da quanto sia la stima della quota di profitti generata da investimenti green.
Il cattivo: Eni-Plenitude
Pensando che il mercato sottostimasse la sua tonalità di verde, Eni ha pensato bene di scorporare tutte le sue attività nelle rinnovabili in Plentitude, per poi quotarla, pur mantenendone il controllo, per catturare nel consolidato il maggior valore che riteneva le avrebbe attribuito il mercato.
Non è andata così: forse perché l’operazione aveva diversi elementi chiaramente opportunistici. Il margine operativo di Plentitude dipende oggi quasi esclusivamente dalla distribuzione del gas alle famiglie, che di rinnovabile ha ben poco, e che anche nel 2025 rappresenterebbe più della metà del margine di Plentitude, secondo il piano Eni.
Inoltre, è evidente che Eni voleva sfruttare il fenomeno dei criteri Esg per gli investimenti, che crea una domanda elevata per le società con il bollino verde.
Senonché gli investimenti Esg, specie con la pandemia, hanno assunto un tratto da bolla, in parte scoppiata con la crisi energetica: le società del Global Clean Energy Index, per esempio, hanno visto triplicare il rapporto prezzo/utili a inizio 2021 rispetto ai cinque anni pre-CVovid, per poi dimezzarsi a marzo con la guerra in Ucraina. Ma non si crea valore di lungo periodo con l’opportunismo in borsa: e così Eni ha rinunciato alla quotazione di Plentitude.
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