Trent'anni dopo la mancata alleanza che favorì l’ascesa di Berlusconi, i post-Dc e i post-Pci manifestano disagio nel contenitore in cui sono confluiti nel 2007. Nei momenti più alti della storia repubblicana, le due dottrine avevano interpretato le grandi lotte collettive, oggi appaiono incapaci di decifrare il presente. Restano le battaglie di corrente.
Si è molto parlato della mitologica videocassetta con cui Berlusconi scese in campo, trent'anni fa, e quasi per nulla delle condizioni che resero possibile quella marcia elettorale trionfale, ovvero la mancanza di una coalizione alternativa di centro-sinistra, come oggi.
Nel 1994 le due culture maggioritarie della Prima Repubblica, quella cattolico-democratica e quella comunista, furono travolte dal nuovo vento che spirava da destra. Si erano appena trasformate, lasciando le vecchie insegne. Il Pci era diventato Pds, la Dc era tornata all'antico Partito popolare italiano. La loro mancata alleanza portò alla vittoria del carrozzone berlusconiano.
Gli ex ragazzi del Pci
Trent'anni dopo i loro eredi manifestano disagio nel contenitore in cui sono confluiti nel 2007, il Partito democratico. In modo esplicito, Pierluigi Castagnetti, sul lato cattolico-democratico, a proposito dello scontro sul fine vita, e Goffredo Bettini, per interposta persona (l'uscita dal gruppo Pd dell'europarlamentare Smeriglio), sul versante post-Pci, si dichiarano a disagio nel Pd guidato da Elly Schlein. Un sentimento che viene da molto più lontano.
Per gli ex ragazzi del Pci di Enrico Berlinguer, e per i loro più giovani epigoni, è la sindrome dei figli del dio minore, come la chiamò (per negarla) il virgulto prediletto della stirpe, Massimo D'Alema: l'impossibilità di andare al governo, o al potere, in prima persona. In trent'anni mai un esponente dell'ex Pci ha vinto le elezioni, semmai gli eredi del Pci sono stati trainati da altri poteri, economici, mediatici. Fino ad arrivare all'equivoco terminale di Giuseppe Conte «oggettivamente un fortissimo punto di riferimento di tutte le forze progressiste» (definizione di Zingaretti e Bettini). In settimana, l'ex ministro Roberto Speranza ha rivelato parlando del suo libro (presenti Conte e Schlein) che un bel pezzo dei dirigenti della sinistra (Pd, articolo 1) nel 2021 sarebbe stato pronto ad andare al voto con una coalizione guidata dal leader dei 5 Stelle (c'è da chiedersi se lo sarebbero ancora). Altro che egemonia, un capolavoro di subalternità culturale.
Per i cattolici democratici, cultura politica di minoranza dentro la Dc, ma molto vitale anche fuori dal partito, Guido Formigoni, Paolo Pombeni, Giorgio Vecchio scrivono nelle pagine conclusive della loro Storia della Democrazia cristiana (Il Mulino) che la Dc fu insieme partito di ispirazione cristiana, partito-Stato, partito-società, partito unitario e plurale al tempo stesso. Una sintesi che spiega la crisi. L'ispirazione cristiana intesa come spinta al cambiamento, «principio di non appagamento» (Aldo Moro), non era più riconosciuta in una Italia rapidamente secolarizzata, che divorava fedi religiose e ideali politici.
Il contrario della politica
Il partito-Stato non aveva più ragion d'essere in uno Stato contestato dall'alto dal neo-liberismo e dal basso da cittadini che non si sentivano più protetti dal pubblico, a volte in modo clientelare e perfino criminale. Il partito-società non si adattava più a una società che si ribellava a paternalismi e pedagogie, che non voleva essere tenuta per mano dai padri-padroni. Il partito plurale e unitario non era più tenuto insieme dal collante del potere e si è scheggiato in mille pezzi.
Dopo la fine della Dc, molti esponenti cattolici democratici si sono rifugiati in un culto identitario, in una lamentazione minoritaria o in una continua rivendicazione di spazi e di incarichi dentro il Pd. Dimenticando che né De Gasperi, né Moro, ma neppure Giuseppe Dossetti e Beniamino Andreatta, hanno mai sentito il bisogno di parlare della loro identità: quando si avverte la necessità di farlo è perché la radice si è rinsecchita. Anche Romano Prodi non l'ha mai fatto.
Una crisi speculare a quella dei post-Pci che ha reso ancora più fragile e incerto il cammino del Pd. Grandi culture che nei momenti più alti della storia repubblicana sono riuscite a interpretare le grandi lotte collettive, oggi appaiono incapaci di decifrare il presente, faticano ad affrontare «il tempo che ci è dato da vivere», si sentono estranei alla contemporaneità: una critica alla mentalità corrente che è nobile se è profezia di futuro, non quando è retroguardia.
Un tempo i partiti nascevano nella società e poi arrivavano alla sfera della politica. Oggi restano le battaglie di corrente, forse l'annuncio di nuove separazioni, ancor più velleitarie. O la fuga nell'etica, la rinuncia a incidere, che è il contrario della politica.
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