La discussione sulla causa prima del conflitto tra palestinesi e israeliani è talmente emotiva e preconcetta da incagliarsi al primo passo. Tranne pochi casi si discute e si scrive con il coltello tra i denti, pronto a lanciarlo conto il nemico: emblematica la rozzezza dei commenti sull’iniziativa, coraggiosa, del segretario generale dell’Onu, António Guterres. Per uscire da questo clima avvelenato può soccorrere una analisi fondata sui cardini del diritto internazionale. Alcuni scritti illuminanti aiutano a definire la questione in questi termini, in particolare quelli di Marco Longobardo sul SIDIBlog e Chantal Meloni sul sito de Il Mulino. Il primo punto da chiarire è lo status di Gaza. Un territorio sovrano in quanto la Palestina ha lo status di osservatore all’Onu? Oppure una simil-colonia israeliana?
Che cosa è Gaza
Alla prima domanda è facile rispondere: la Striscia di Gaza è parte integrante del Territorio Palestinese (questa la definizione ufficiale), che comprende anche la Cisgiordania e Gerusalemme Est. La seconda domanda fa immediatamente rizzare le orecchie, perché contrariamente a una vulgata corrente, le più autorevoli organizzazioni internazionali, dal sistema Onu alla Corte penale internazionale fino alla Croce rossa, considerano Gaza sotto occupazione israeliana. Il fatto che Israele abbia ritirato le sue truppe nel 2005 non ha alcun rilievo perché in base all’articolo 42 del regolamento dell’Aja del 1907, progenitore della Convenzione di Ginevra del 1949, la definizione consuetudinaria di territorio occupato prescinde dalla presenza di truppe nemiche. Su cosa si basa allora l’occupazione di Gaza senza diretta presenza israeliana sul terreno? Sul controllo degli accessi all’esterno e sulla dipendenza da beni essenziali da parte dell’occupante. L’acqua in particolare è centellinata da Israele così come l’afflusso di derrate alimentari, anche se commerci grigi e contrabbando contribuiscono ad alleviare la situazione.
Una volta definita Gaza un territorio occupato si passa a un’altra questione saliente. Esiste un diritto alla resistenza di fronte all’occupazione? Il diritto internazionale «non vieta alla popolazione di un territorio occupato di prendere le armi contro l’occupante» e «chi partecipa alla resistenza contro la potenza occupante ha diritto a essere trattato come prigioniero di guerra in quanto legittimo combattente (art. 4(A)(2) della Terza convenzione di Ginevra del 1949)». La resistenza armata è legittima, ma non tutti i mezzi sono accettabili. Se Hamas si fosse limitata ad attaccare le postazioni dell’esercito israeliano, quell’azione sarebbe stata configurabile come un atto legittimo di resistenza. Massacrando indiscriminatamente civili – o consentendo ad altri di farlo – ha violato ogni regola possibile di diritto internazionale umanitario e quindi, in base all’articolo 8 della Cpi, i miliziani di Hamas sono responsabili di crimini contro l’umanità.
Il diritto umanitario
Se quindi gli occupati palestinesi hanno diritto di resistere ma non di commettere crimini contro l’umanità, anche gli occupanti israeliani hanno diritti e limitazioni. Il diritto alla legittima difesa di Israele non può infrangere norme di diritto internazionale umanitario. In particolare, è vietata la politica, dal sapore medievale, dell’assedio per fame come praticato a piccole dosi da sempre e adottato integralmente nei primi giorni dopo l’assalto di Hamas. In base alla convenzione di Ginevra e allo statuto della Corte penale internazionale la “starvation” rappresenta un crimine di guerra. Inoltre, come scrive Longobardo, «secondo l’articolo 50 dei regolamenti dell’Aja del 1907 e l’articolo 33 della quarta convenzione di Ginevra, la potenza occupante non può sottoporre l’intera popolazione del territorio occupato a una pena o punizione collettiva per un atto commesso da alcuni suoi membri». Senza l’osservanza dei principi di precauzione, distinzione e proporzionalità l’intervento a Gaza potrebbe infatti essere sanzionato dalla Corte penale internazionale.
Nei primi giorni, ancora sotto shock per i massacri, in Israele serpeggiava il desiderio di punizione collettiva per il popolo palestinese. In effetti già oggi il numero di morti civili, non precisabile perché Hamas ne fa un uso propagandistico, non è certo inferiore a quello registrato il 7 ottobre, perché le immagini dello sbriciolamento dei palazzi bombardati non lascia adito a dubbi. Ma dalla società civile israeliana si sono alzate voci in opposizione a questa sete di vendetta che trasformerebbe l’aggredito in carnefice. Esiste una opinione pubblica in quel paese che sa distinguere tra barbarie e civiltà. Nel dibattito italiano, invece, simili voci sono sommerse da un furore bellicista che tracima dalla destra più reazionaria fino a investire dei soi disant liberali, campioni di doppiopesismo.
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