- Dall’inizio della pandemia i licenziamenti ci sono stati eccome, anche se meno del passato. La narrazione del 2020 senza alcun occupato a tempo indeterminato che perde il posto di lavoro si scontra con i dati.
- Dall’analisi delle Comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro emerge che nel 2020 ci sono stati circa 550 mila licenziamenti contro i 900 mila del 2019. Non sono ancora disponibili i dati del 2021.
- A questi poi si sommano le centinaia di migliaia di occupati a termine che hanno visto il loro contratto non rinnovato e i tirocinanti che hanno avuto la stessa sorte o che peggio hanno visto il tirocinio interrompersi: i licenziamenti fantasma.
È ormai da oltre un anno che il dibattito sul lavoro in Italia si è polarizzato intorno al tema del blocco dei licenziamenti. Non certo una novità in un Paese in cui è ormai impossibile porre l’attenzione su un tema senza appunto uno scontro radicale tra posizioni quasi sempre inconciliabili. Prolungato più volte, il blocco ha ora gli ultimi due step prima di essere tolto del tutto. Ma sono step che non sembrano mettere tutti d’accordo, soprattutto Confindustria e i sindacati, contrapposizione che si traduce poi all’interno delle diverse anime del governo. Il tutto contribuisce a generare non poca confusione alimentata da continue dichiarazioni che fanno perdere di vista la realtà dei fatti. Da ultimo il dibattito di questi giorni che ha visto un rilancio da parte dei sindacati per una proroga del blocco fino a fine agosto ma che sembra essersi tradotto in un nulla di fatto.
Le imprese potranno quindi licenziare a partire dal 30 giugno, salvo quelle che utilizzano il FIS o la cassa integrazione in deroga per le quali il blocco finirà il 31 ottobre. In aggiunta le imprese potranno chiedere la cassa integrazione Covid (quindi senza il contributo addizionale) se si impegnano a licenziare.
Un compromesso che sembra accontentare tutti perché spazza la palla, rimandando il problema più in là e lasciando alle imprese che non vogliono perdere competenze in un momento di crisi la possibilità di ricorrere alla cassa integrazione. Soluzione che sembra però ignorare molti dati della realtà, radicalizzando il dibattito sul tema dei licenziamenti lasciando sullo sfondo molto altro.
Perché, per esempio, si continua a far finta di ignorare che dall’inizio della pandemia i licenziamenti ci sono stati eccome, anche se meno del passato. La narrazione del 2020 senza alcun occupato a tempo indeterminato che perde il posto di lavoro si scontra con i dati. Infatti, dall’analisi delle Comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro emerge che nel 2020 ci sono stati circa 550 mila licenziamenti contro i 900 mila del 2019. E i primi dati grezzi disponibili per il 2021 fanno immaginare un trend almeno simile. Numeri quindi inferiori agli anni precedenti, ma che di certo non mostrano quel totale congelamento di cui si parla.
A questi poi si sommano le centinaia di migliaia di occupati a termine che hanno visto il loro contratto non rinnovato e i tirocinanti che hanno avuto la stessa sorte o che peggio hanno visto il tirocinio interrompersi: i licenziamenti fantasma.
Il primo polo del dibattito, quello che ritiene che fino a oggi la situazione sia stata contenuta, e che quindi lo sblocco coinciderà con una ecatombe, finge di ignorare che ampia parte del disastro sia già avvenuta e non ce ne stiamo occupando. La parte opposta, che invece ritiene che l’unica soluzione per una ripresa dell’economia sia quella di ridare subito alle imprese la possibilità di licenziare, non sembra interessarsi del fatto che al momento non abbiamo alcun sistema di protezione efficace per i lavoratori che perdono il posto di lavoro.
La riforma necessaria
Il risultato è che ci troviamo in una situazione in cui i segmenti più fragili del mercato del lavoro (giovani, donne, tirocinanti, lavoratori non standard) hanno perso il lavoro da oltre un anno senza che vi sia stato alcun tentativo di individuare strumenti di protezione e reinserimento, e questi si sommano ai licenziati fantasma di cui abbiamo detto.
Allo stesso tempo sembra che stiamo aspettando, procedendo con piccole soluzioni di compromesso, il giorno in cui questo problema si porrà anche per chi sarà vittima del blocco dei licenziamenti. Sullo sfondo si sentono poi vaghi appelli a una riforma delle politiche attive del lavoro che andrebbe sviluppata in pochi mesi dopo che per vent’anni non siamo riusciti a farla decollare e nel momento in cui, dopo il commissariamento dell’Anpal, la situazione è più confusa che mai.
Sarebbe invece proprio questo il momento, approfittando delle risorse del Pnrr, non tanto per proporre riforme da un giorno all’altro, ma per avviare un processo di riforma che sappiamo bene sarà lungo e non funzionerà se non riceverà il supporto di una serie di attori che vanno ben oltre lo stato. Questo sia orizzontalmente, coinvolgendo proprio quelle parti sociali che oggi sembrano occupate solo a discutere di blocco dei licenziamenti, che verticalmente scendendo dal livello nazionale a quello territoriale verso un tessuto produttivo sempre più frammentato. Un processo che, purtroppo, non sembra veramente interessare a nessuno.
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