Non è vero che la burocrazia blocca la politica mentre può essere vero l’inverso. La politica, infatti, a partire dall’approvazione della legge n. 59 del 1997 (legge Bassanini) ha acquisito una pluralità di strumenti per indirizzare e orientare il lavoro della burocrazia, fissandone le priorità e definendo degli obiettivi puntuali il cui raggiungimento è indispensabile per erogare i compensi accessori ai dirigenti pubblici.
E pur tuttavia, nei giorni scorsi, abbiamo assistito ad avvilenti dibattiti sullo spoils system e sulla burocrazia politicamente orientata che sarebbe la causa di alcune défaillance dell’attuale governo.
Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha evocato l’immagine del machete necessario «per rompere le catene, i lacci, le inefficienze, che bloccano le possibilità di sviluppo e di crescita della pubblica amministrazione». In realtà il machete c’è già ma ministri – di questo come dei precedenti governi – non sembrano saperlo
Come usare il machete
Le Leggi Bassanini, infatti, hanno introdotto meccanismi che consentono alle autorità politiche di dettare la linea alla struttura amministrativa e di “sanzionare”, riducendone lo stipendio anche della metà, quei dirigenti che non rispettano gli obiettivi fissati.
Questi strumenti vanno sotto il nome di “ciclo della performance” e sono stati potenziati con il decreto legislativo n. 150 del 2009 durante il secondo governo Berlusconi, per volontà dell’allora ministro Renato Brunetta.
Nello specifico, la normativa vigente, finalizzata a “ottimizzare la produttività del lavoro pubblico”, prevede che, all’atto dell’insediamento e, a seguire, a cadenza annuale, ogni Ministro adotti, con proprio decreto, un atto di indirizzo sulle priorità politiche per l’anno in corso e per il triennio successivo in cui definisce in quale direzione deve lavorare la burocrazia del suo ministero al fine di attuare il programma di governo.
Si tratta di un documento in cui l’autorità politica dapprima inquadra gli obiettivi in termini generali, illustrando i fattori di rischio e di debolezza, per poi elencare puntualmente le priorità politiche e le relative azioni necessarie per la sua attuazione.
A seguire, il ministro deve adottare la direttiva generale sull’attività amministrativa e sulla gestione in cui definisce, per ciascuna direzione generale, gli obiettivi specifici, le risorse economiche a disposizione per raggiungerli, le risorse umane, il cronoprogramma e la tempistica e fissa un sistema di indicatori per valutare il raggiungimento dei risultati.
La direttiva ministeriale è seguita, a sua volta, da altre direttive che i singoli direttori generali emanano verso i loro dirigenti di seconda fascia in modo da rendere sempre più chiaro chi fa che cosa, per quale motivo, in che modo e in quale tempo.
In ogni ministero sono stati istituiti degli organismi (più o meno) indipendenti chiamati a valutare il raggiungimento di tali obiettivi a ciascuno dei quali è assegnato un “peso” tale per cui il mancato o parziale raggiungimento determina la riduzione dello stipendio del dirigente in misura proporzionale.
La legge, poi, dispone che qualora il dirigente non raggiunga i risultati fissati dalla politica e prosegua in tale “insufficienza”, il ministro può disporre la revoca dell’incarico e metterlo, per così dire, in panchina, con una perdita economica significativa, potendo, in ultimo, nei casi più gravi, disporne il licenziamento.
Tutti promossi
Tali “machete”, tuttavia, sono sostanzialmente ignorati dalla politica. Basta fare un veloce giro sui siti internet dei ministeri per rendersi conto che, negli ultimi trent’anni, quasi nessun ministro ha dato peso agli atti di indirizzo che generica ripetizione di espressioni vuote, mentre le direttive generali, quelle che dovrebbero fissare i singoli risultati, sono per lo più scritte dai dirigenti stessi che tendono, di conseguenza, a tenere molto bassa l’asticella così da essere sempre promossi a pieni voti.
Ed è questo il motivo per cui, ad esempio, al comune di Roma perfino i dirigenti preposti alla gestione dei rifiuti o dei trasporti hanno ricevuto il 100 per cento del premio di risultato quando è evidente il fallimento. La colpa, tuttavia, non è della burocrazia ma della politica che deve sapere esercitare la propria leadership evitando di invocare nuovi strumenti normativi quando ve ne sono già.
Il ministro Crosetto ce lo insegna: se la filiera di comando è sfilacciata e se gli “ordini” sono indefiniti o contradditori, nessun “reggimento” può vincere una battaglia a prescindere dall’eventuale colore politico dell’ufficio di turno.
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