Fin dall’inizio dell’anno ricorre un mito: che la “politica” e i partiti fossero stati emarginati dall’arrivo di Mario Draghi a palazzo Chigi. Non è così. L’incarico affidato a Draghi è derivato da una scelta autonoma del presidente della Repubblica come la Costituzione gli consente di fare.

In altri termini, la politica, al suo vertice istituzionale più alto, si è dimostrata ben presente e propositiva. Che questo intervento risolutorio provocasse un appannamento del ruolo dei partiti era inevitabile ma, come vedremo, la realtà è un po’ diversa.

Incominciamo col chiederci da chi e cosa è stata causata la crisi. La risposta è semplice: dal tentativo di un piccolo partito – Italia viva di Matteo Renzi – di acquisire maggiore visibilità e spazio di manovra. Per chi non ricordasse il momento, il pomo della discordia su cui è caduto il governo Conte verteva sull’accettazione immediata del Mes, il finanziamento d’emergenza per messo in campo nella primavera del 2020 dall’Unione europa per gli stati in difficoltà.

Le richieste di Renzi

Il fatto che il nuovo governo abbia fatto spallucce alle richieste di Renzi, avendo ben altri problemi a cui pensare, non è importante in questo contesto perché della strumentalità delle ragioni portate da Renzi contro quello stesso governo che aveva contribuito a far nascere non c’è da scandalizzarsi più di tanto, fa parte del gioco.

Piuttosto ciò che rileva la vicenda è il tipo di crisi che è stata innescata, in quanto era tutta politica, non istituzionale. Non sono stati messi in questione le regole gioco, il ruolo degli attori, le istituzioni. Nessuno ha contestato la legittimità della crisi né la sua soluzione, contrariamente a quanto era successo nel maggio del 2018 quando Mattarella aveva bocciato il candidato ministro euroscettico/eurocritico Paolo Savona. O quando, in tempi passati, Berlusconi e suoi aveva gridato al golpe per la caduta del governo e la nomina di Mario Monti nel 2011 – per non dire delle invettive contro il presidente Oscar Luigi Scalfaro per non aver convocato le urne dopo la crisi del primo governo Berlusconi a fine 1994, o le ripetute accuse di brogli, andate avanti per anni, per la sconfitta alle elezioni del 2006.

Quelle erano crisi istituzionali in cui la politica entrava solo come pulsione populistica e antisistema a opera del Cavaliere e dei suoi giannizzeri. Nulla di tutto ciò è accaduto all’inizio di quest’anno. Giuseppe Conte ha lasciato palazzo Chigi con una eleganza e un fair play che tutti gli hanno riconosciuto.

Il ruolo dei partiti

Grazie a questo atteggiamento cooperativo del partito di maggioranza, distante anni luce dalla crisi del 2018 sopra ricordata, a dimostrazione dell’avvenuta, auspicata, “romanizzazione (di uno) dei barbari”, il presidente della Repubblica ha quindi potuto varare un governo di semi unità nazionale, sulla falsariga di quanto già accaduto più volte con esecutivi tecnici e non, ultimo quello Pd-Pdl presieduto da Enrico Letta all’indomani delle elezioni del 2013.

Il ruolo dei partiti nella formazione dell’esecutivo Draghi è stato tutt’altro che irrilevante. Non lo è stato nel creare le precondizioni, poiché l’abbattimento dell’esecuto giallorosso è avvenuto a opera del partito di Renzi e quindi nel perimetro della politica, e non per l’interventi esterni da parte dei “mercati”, dell’establishment internazionale o di organi istituzioni ostili. Non lo è stato nella fase costituiva, vista la collaborazione assicurata da tutti i partiti – meno Fratelli d’Italia – anche a costo di rotture interne come nel caso dei Cinque stelle che hanno pagato con una scissione la loro adesione al governo Draghi.

L’attuale acquiescenza dei partiti all’azione del presidente del Consiglio non va scambiata per sottomissione o emarginazione. Sono semplicemente allineati e coperti in attesa dell’elezione del presidente della Repubblica. Una volta definita quella partita, tutta la politicità intrinseca ai partiti tornerà fuori. Se si rivelerà un vaso di Pandora, sono da mettere in conto elezioni anticipate.

Se il clima non sarà stato arroventato dalla scelta dell’inquilino del Colle, il governo potrà continuare fino alla scadenza naturale della legislatura. Ma i partiti saranno certo più assertivi, chiunque sarà il presidente del Consiglio. Perché è nella natura del sistema parlamentare rappresentativo. Che siano deboli o forti, disprezzati o apprezzati, non conta: sono sempre loro, i partiti, i padroni del gioco.

 

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