C’è chi concepisce il governo Draghi come una sorta di sciopero della politica. Un momento di sospensione nel quale il pilota automatico sostituisce la funzione democratica dei partiti così come prevede la Costituzione. Partiti smontati nella loro dimensione organizzativa e nel loro radicamento sociale e, quindi, indeboliti sul piano culturale e ideologico. Che di tutto si devono occupare eccetto che della dimensione del governo, dei processi economici e delle scelte strategiche del paese.

E, dunque nemmeno della loro autoriforma, perché sarebbe illusorio e persino pericoloso separare i due piani in maniera così drastica. I due tempi in politica non esistono perché i vuoti li riempie sempre qualcun altro. Il direttore Stefano Feltri ha rilanciato il tema del finanziamento pubblico alla politica, che è stato abolito improvvidamente dal parlamento 8 anni fa.

Una risposta sbagliata davanti al ripetersi degli scandali sull’uso disinvolto dei rimborsi che trasversalmente aveva colpito quasi tutti i partiti. Oggi il tema si ripropone sotto sembianze diverse con la drammatica vicenda che emerge dalle carte dell’inchiesta Open. Lo spaccato impressionante di un degrado politico che pensavamo fosse solo confinato nella spregiudicatezza manovriera di un leader presentatosi sulla scena come rottamatore di tutto ciò che era vecchio e che invece fa riemergere una pratica quantomeno discutibile dell’uso delle risorse private a scopi elettorali.

Non so se questa vicenda avrà risvolti giudiziari solidi, quel che importa è che rivela l’idea di una democrazia messa all’asta, dove il potere dei soldi ricavati da lobby, imprese, gruppi di interesse incide nell’orientamento delle forze politiche e delle loro opzioni programmatiche.

D’altra parte, la domanda che va posta – innanzitutto a chi ha subito quell’opa, ovvero il Partito democratico – è se il vero nodo da sciogliere non sia un’idea di organizzazione dove la partecipazione si limita prevalentemente all’elezione di un segretario tramite primarie che si svolgono una volta ogni tre anni e dove è possibile partecipare per tutti i cittadini che abbiano diritti politici, al netto della loro appartenenza o meno a quel soggetto.

Questo rende un partito indifeso davanti alle influenze esterne – persino quelle degli avversari –, scalabile da fuori piuttosto che contendibile da dentro nella battaglia delle idee. In sostanza, non è detto che non possa rispuntare da qualche parte in futuro un altro Matteo Renzi, in grado di cavalcare un sentimento antipolitico e di saldarlo con il sovversivismo storico di un pezzo dell’establishment italiano.

Oggi sappiamo che per l’ascesa al potere e alla leadership del centrosinistra di Renzi ci sono stati soggetti economici in carne e ossa che – accanto a tanti cittadini che hanno investito politicamente e in perfetta buona fede sulla sua leadership emergente – non hanno esitato a mettere mano alle tasche e a scommettere su uno spostamento dell’asse politico a destra del Pd. Sradicandone così le radici, come ha detto Pier Luigi Bersani recentemente.

Spostamento a destra

"Italia Viva" party leader Matteo Renzi leaves after answering journalists' questions at the Quirinale palace in Rome Thursday, Jan. 28, 2021, as political forces meet with Italian President Sergio Mattarella on the creation of a new Italian government. Italian Premier Giuseppe Conte resigned after a key coalition ally pulled his party's support over Conte's handling of the coronavirus pandemic, setting the stage for consultations this week to determine if he can form a third government. (Andreas Solaro/pool photo via AP)

Esistono alcune conferme abbastanza evidenti di questo: il Jobs act, ingenti sgravi fiscali alle imprese, buona scuola, deregolamentazione del codice degli appalti, torsione presidenzialista della Costituzione. Non erano opzioni neutre, ma una chiara ed evidente ricollocazione di uno schieramento politico fuori dalla sua naturale rappresentanza di interessi.

È stato un investimento molto remunerativo per chi ci ha creduto, ma anche una straordinaria operazione di smontaggio di un blocco sociale che era stato la base del patto repubblicano nato dalla resistenza antifascista. Per questo torna il tema di come si riabilita la politica, ricostruendone quell’autonomia che oggi rappresenta la vera questione morale del paese.

La macchina del fango verso avversari politici e giornalisti non allineati è la naturale conseguenza di quella che si configura come una vera emergenza democratica. Il 2 per mille non può essere una risposta. È una legge che introduce un principio per molti aspetti classista, perché non tutti i contribuenti sono uguali e il 730 di un metalmeccanico o di un pensionato non ha lo stesso peso economico dell’Unico di un imprenditore o di un professionista.

Il finanziamento pubblico invece prevede che un voto pesi allo stesso modo per tutti i cittadini, ricchi o poveri che siano. Con il 2 per mille puoi avere pochi sostenitori ma facoltosi e dunque prenderai tanti soldi, mentre con il finanziamento pubblico no, perché l’urna è una livella.

È evidente che se non si mette mano a questa contraddizione è molto difficile che riparta una dialettica normale tra le forze politiche, capaci di tornare alla guida del paese senza complessi di inferiorità o affidamenti ciclici alla potenza della tecnica e del vincolo esterno. Forse il momento per ripensarci è oggi, a maggior ragione quando persino attorno alla partita del Quirinale torna a manifestarsi il fantasma di chi nella cosiddetta seconda Repubblica ha cercato di trasformare la democrazia dei partiti in un grande calciomercato. Quelli che sono venuti dopo sono stati soltanto allievi un po’ baldanzosi, una copia apocrifa del cinismo di House of Cards, ma tutto sommato scarsi.

 

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