- Lanciare un giornale di quest’epoca è una scommessa, com’è accaduto anche a Domani. Un giornale di strada poi è una scommessa ancor più temeraria com’è il caso de L’Osservatore di strada – giornale dell’amicizia sociale e della fraternità.
- Un’idea sorta in un periodo non facile per chi è povero, senza fissa dimora o stigmatizzato in quanto rom e straniero. Sono loro gli autori di questa pubblicazione mensile che inizia la sua avventura in piena estate, sorta su impulso del desiderio di papa Francesco.
- Su di chi vive per strada si scarica subito e senza ammortizzatori la tensione di una società più fredda, più arrabbiata e piena di rancore sociale.
Lanciare un giornale di quest’epoca è una scommessa, com’è accaduto anche a Domani. Un giornale di strada poi è una scommessa ancor più temeraria com’è il caso de L’Osservatore di strada – giornale dell’amicizia sociale e della fraternità. Un’idea sorta in un periodo non facile per chi è povero, senza fissa dimora o stigmatizzato in quanto rom e straniero. Sono loro gli autori di questa pubblicazione mensile che inizia la sua avventura in piena estate, sorta su impulso del desiderio di papa Francesco per una «chiesa in uscita», come ricorda Andrea Monda, il direttore dell’Osservatore romano.
L’Osservatore di strada vuole essere il giornale degli “scartati” che lo creano sotto la direzione di Piero Di Domenicantonio, e lo distribuiscono (offerta libera). Serve a comunicare le storie di quel mondo invisibile e parallelo che vive accanto al nostro: spesso mondi che non si incontrano. Ci sono altri giornali di strada come il noto milanese Scarp de tenis.
Due universi
L’Osservatore di strada vuole essere un messaggio: facilitare la comunicazione tra i due universi e divenire il giornale dell’amicizia, quell’amicizia sociale che papa Francesco indica come la soluzione per tante crisi dell’uomo odierno. È anche il luogo dove in molti possono esprimere e condividere, raccontare e raccontarsi. Nel primo numero ciò che colpisce è il gran numero di poesie e di poeti, quasi che la strada potesse essere narrata davvero solo con un linguaggio lirico e lieve, molto diverso dallo stigma che le si appiccica addosso.
La poesia è un linguaggio diverso anche dalla concretezza e dalla durezza di ciò che significa stare senza un tetto sulla testa, soli, sbattuti nel mare della vita sprovvisti di protezione. È come se il profondo di questa vita solitaria, scartata e ai margini, fosse piena di qualcosa che non si vede ma che si può esprimere con la poesia, che poi è una forma di preghiera.
Nel giornale vi sono le testimonianze di chi vive o ha vissuto per strada, delle sofferenze ma anche dei sogni. C’è la storia di Mimmo che si apre con il poeta Daniele Mencarelli su cosa accade a chi cammina e non si ferma mai. C’è il racconto della notte, la parte più paurosa della giornata dei senza tetto.
Le storie
Soumaila Diawara, maliano, è un altro poeta e laureato, parla della strada dei migranti. Non mancano le parole del papa callejero, il sacerdote di strada come ama definirsi, e le immagini di Palazzo Migliori, la casa per i senza fissa dimora messa a disposizione dall’elemosineria apostolica diretta dal Card.
Krajewski, curata e gestita dalla Comunità di Sant’Egidio. Tutto ruota attorno alla strada, il luogo più esposto delle nostre città. La cosa assurda è che i poveri stanno per strada, questa parte visibile e aperta, eppure non li vediamo.
Per vederli ci vuole una sensibilità particolare e il nuovo Osservatore aiuta a fermarsi, osservare, ascoltare. In tempi di crisi e di guerra come i nostri, chi vive sprovvisto di protezione è senza rete: basta ricordare cosa fu dei senza fissa dimora al tempo del covid quando eravamo tutti costretti dentro casa.
Chi non ce l’aveva dove poteva andare? Le nostre vie incrociano spesso i poveri ed è importante imparare ad accorgersene: vederli, guardarli negli occhi, parlarci, toccarli. Sono compagni di strada e sono i primi a subire le conseguenze di un tempo che si indurisce e che diviene meno tollerante con gli altri, i diversi, gli stranieri.
Su di chi vive per strada si scarica subito e senza ammortizzatori la tensione di una società più fredda, più arrabbiata e piena di rancore sociale. È noto che le prime vittime del clima di odio, di cui si parla sui media, sono i poveri della strada, coloro che non hanno nessun luogo dove nascondersi.
Dobbiamo accettare di essere disturbati, inquietati da queste presenze silenziose che chiedono aiuto e talvolta non ci riescono nemmeno, restando lì, fermi e muti. Agim Saiti, un rom originario del Kosovo, pubblica sul giornale la sua poesia: «Sono solo, perché sono rimasto vedovo. Vivo in periferia lontano dal centro del mio cuore. Ma la cittadinanza mi ha fatto parte di questa città antica e bella. Credimi: per questo sono felice».
Ed è questa la felicità che tutti cercano, quella fraternità che fa da sottotitolo al giornale. Vengono in mente i versi di Pier Paolo Pasolini che quelle strade ha cantato nel Pianto della scavatrice: «Un’anima in me, che non era solo mia, una piccola anima in quel mondo sconfinato, cresceva, nutrita dall’allegria di chi amava anche se non riamato. E tutto si illuminava, a questo amore».
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