Il governo Meloni somiglia in modo sempre più sinistro al governo Conte 1, quello della grande alleanza nazional-populista tra la Lega e il Movimento 5 stelle. Ciò che preoccupava di quel governo non erano tanto le scelte di politica interna, discutibili ma comunque sostenute da risultati elettorali importanti dei due partiti, quanto la posizione eterodossa in politica internazionale.

Era quello l’esecutivo che scelse, quale unico paese occidentale, di aderire alla Via della seta della Cina; il governo che si presentava come euroscettico e aveva entrambe le forze all’opposizione dell’Unione europea; la maggioranza tutta schierata, in modo troppo smaccato, dal lato di Trump per poi deludere l’allora presidente proprio siglando l’accordo con i cinesi.

È dunque alla politica internazionale che bisogna guardare per capire dove sta andando il governo Meloni. Un governo che per il primo anno e mezzo di vita ha fatto della politica internazionale, atlantista e di buona collaborazione con Bruxelles, il proprio vanto e che negli ultimi mesi sembra aver invertito la rotta, pur in modo ancora non irrimediabile.

La prima debolezza si nota sul sostegno all’Ucraina, dove anche un atlantista come il ministro Crosetto inizia a vacillare. Segno che in Fratelli d’Italia inizia a prevalere la paura che la guerra diventi più aperta e offensiva e che lo zoccolo duro degli elettori di destra preferisca un appeasement con la Russia di Putin tamponato fino ad oggi dal governo con l’artificio retorico della guerra difensiva, un termine che non significa nulla.

L’Italia appare così tra i paesi europei più recalcitranti a sostenere le mosse di Zelensky e questo si configura come un problema. In uno scenario che assomiglia sempre di più ad una seconda guerra fredda, le potenze capofila tollereranno sempre meno le sbandate degli alleati. In secondo luogo c’è la Cina, con la via della Seta uscita dalla porta e rientrata in gran parte dalla finestra.

Il viaggio di Meloni segnala una contraddizione e un pericolo. La contraddizione risiede nel contestare il green deal europeo per poi finire a supplicare i cinesi di produrre da noi le loro auto elettriche. Un fatto che dovrebbe far riflettere il governo italiano sulla propria coerenza nella politica industriale, ma anche la Commissione europea sulle aporie dell’ecologismo visto dal lato della politica internazionale. Inoltre, dopo il viaggio in Cina sappiamo che l’Italia avvierà partnership con Pechino in diversi settori tra cui alcuni reputati sensibili dagli americani come l’intelligenza artificiale.

Questa volta reti e infrastrutture critiche sono escluse dai patti, ma la Cina riesce comunque a penetrare nel sistema economico e tecnologico italiano, senza dimenticare la dipendenza di molte nostre aziende dalle materie prime cinesi che costituisce una formidabile arma di ricatto nei confronti dei governi europei.

In terzo luogo, non va dimenticato che questi sviluppi sono accaduti nel momento in cui Meloni ha rotto con Von der Leyen e schierato FdI con la Lega all’opposizione in Europa. Tutto si tiene: erosione dell’atlantismo, riallacciamento dei legami cinesi e distanziamento dall’Unione europea. Sul piano del consenso politico, Meloni può anche trarne giovamento, ma il compito di una classe dirigente è guidare la maggioranza e non assecondarla, soprattutto quando c’è di mezzo la ragion di stato.

Senza dimenticare che queste virate hanno comunque un prezzo politico, si ricordi la giravolta opportunistica del Movimento 5 Stelle dopo le elezioni europee del 2019 quando Conte optò per il sostegno a Von der Leyen e il governo naufragò e si guardi oggi all’insofferenza di Forza Italia verso il nuovo corso di Meloni e Salvini che domani potrebbe portare ad una destabilizzazione dell’attuale maggioranza.
 

© Riproduzione riservata