È assai probabile che la recente proposta di riforma sul premierato forte sia un ballon d’essai: di fatto, non potrà mai realizzarsi così come presentata a tutta prima. Ma se pure così fosse, a me pare essa nasconda qualcosa di ben più significativo: la riforma pone in parola una visione della democrazia che, per una via o per l’altra, il governo intende realizzare. Un’idea aurorale, per molti versi mistica, secondo cui la/il presidente del Consiglio riceve l’unzione con il sacro crisma di una volontà popolare che tutto legittima e tutto permette. Secondo tale visione, il cuore della democrazia è una sorta di sacrale trasferimento del potere, che trae origine dal popolo, il quale ultimo si manifesta attraverso una sovrana espressione di volontà. Se così è, il nodo cruciale del premierato meloniano non è tanto l’agognata stabilità, quanto l’esaltazione di un rapporto diretto e quasi carnale tra chi governa e chi è governatə. Il popolo “s’incarna” in una persona fisica che, con indirizzo politico fermissimo, dia piena realizzazione al suo volere, senza che la mano profittatrice e clandestina di figure tecniche possa lordare una simile nobilissima investitura.
Due sono gli assunti che fondano una concezione tanto arcaica della democrazia: l’esistenza del popolo e la rappresentanza come rappresentazione concreta. In effetti, persino chi convintamente ancor oggi sostiene l’esistenza della Nazione – idea fuori moda già a fine Ottocento – sa bene che il popolo è poco più che una finzione letteraria. Con una certa coerenza, costoro ritengono che il popolo vada creato. Il popolo, questa entità metafisica appunto gravata dal difetto d’inesistenza, prende ad esistere proprio quando, come in una liturgia sacramentale, si riunisce per indicare colui o colei che avrà il compito di mostrarne e dimostrarne l’esistenza. Il popolo è dunque quell’entità immaginaria che, come in una transizione di fase, emerge quale entità reale solo nelle poche ore del suffragio, per rifarsi poi invisibile una volta scelta la sua guida quinquennale. Detta guida, dal canto suo, è investita del dovere etico, prima che istituzionale, di incarnare con fermezza d’intenti quel popolo che si è manifestato al solo fine di eleggerla a guida: la/il premier “rappresenta” il popolo nel senso meno tecnico e più corporeo di farsene espressione tangibile.
In un tale capolavoro di prestidigitazione concettuale, il rapporto immediato tra elettorə ed elettə riesce ad occultare il dato di realtà per cui il presunto popolo non è che una frazione dell’elettorato attivo, che non per nulla necessita dell’enzima metabolizzante del premio di maggioranza. Ma il difetto peggiore di questa idea di democrazia para plebiscitaria è che, per un fraintendimento che ha del doloso, sollecita una vistosa semplificazione del processo democratico.
In effetti, ai suoi albori, la democrazia aveva un comprensibile bisogno di procurarsi uno sfondo teorico che permettesse di far piazza pulita di tutti i residui delle monarchie dispotiche. Gli sforzi di pensare la nazione, la comunità di destino, la volontà popolare, assieme a molte altre nozioni che abbiamo ereditato da quei tempi di pionierismo democratico, erano tesi a mettere in mora la tradizionale concezione di una legittimità che calava dall’alto (se non dall’Altissimo) e ammetteva l’azione senza vincoli di un sovrano che non aveva da giustificare nulla agli occhi di nessuno. In tale ottica di liberazione dal passato, la semplificazione per cui il potere viene solamente dal popolo, il quale trasferisce detto potere tramite suffragio, è non solo comprensibile, ma felice: in fin dei conti, ha permesso di giungere, tramite molte peripezie, alle democrazie costituzionali di metà Novecento. A più di due secoli di distanza, però, questa idea risulta non solo antiquata, ma anche retriva. Dal secondo Novecento in poi, la democrazia è qualcosa di assai più complesso. La sua essenza non si esaurisce certo in un meccanismo di legittimazione democratica diretta.
La democrazia nata nel secondo Dopoguerra è innanzitutto un meccanismo volto a comporre pacificamente le molteplici visioni del mondo presenti in società, senza mai uniformarle, mentre al contempo favorisce l’emergere di sempre nuove alternative all’esistente. Per svolgere un compito di tale portata, un sistema democratico deve giocoforza articolarsi in una serie complessa di poteri e istituzioni differenziati, talora in virtuosa competizione tra loro, sostenuti da principi di legittimazione altri che non l’espressione diretta della volontà popolare. Questo perché il volere di cittadine e cittadini si forma e si esprime in molti spazi istituzionali che non la sola urna elettorale, come ad esempio le proposte referendarie, le leggi di iniziativa popolare, le molte aule di tribunale in cui la cittadinanza lamenta e indica i limiti della legislazione esistente; luoghi e forme che negli ultimi decenni hanno fornito una virtuale, dettagliatissima agenda di riforma, ampiamente disconosciuta nelle aule parlamentari.
All’opposto, il premierato forte si presenta come lo strumento istituzionale sommo per trincerare una sedicente volontà popolare e farla agire “a mezzo premier” per almeno un lustro.
Ad animarlo sta l’idea secondo cui chi guida l’esecutivo, elettə a suffragio universale, sia legittimatə a far prevalere certi valori, certi ideali, certi interessi, infelicemente presentati come i valori, gli ideali e gli interessi del popolo nella sua totalità. Insomma, la visione sottesa alla nascitura riforma mi pare un’efficacissima sintesi di tutto ciò che democrazia non è; là dove, di contro, essa consiste nella capacità di garantire a tuttə le risorse materiali e immaginative per realizzare molti mondi nel solo mondo che abbiamo. Sicché, per quanto la democrazia rimanga un ideale cui un certo sistema può solo approssimarsi, senza mai poterlo realizzare del tutto, rispetto a siffatto ideale il premierato forte traccia una retta tutt’altro che asintotica.
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