All’ex governo giallorosso non è riuscito il muro comune sull’amnistia ai No-vax. Conte: «Disponibile al dialogo. C’è il tempo per l’alternativa». Ma poi con Avs avvisa il Pd sul Salva-Milano: «Fermatevi»
Il freddo fra Pd e M5s fa sprecare alle opposizioni un’occasione da gol. Sull’amnistia delle multe per i No-vax, spuntata nel Milleproroghe, ieri i Cinque stelle si sono scatenati. Anche il Pd ha fatto la sua brava interrogazione parlamentare. Ma alla fine il chiasso più forte l’ha fatto il no di Forza Italia. E dire che l’emergenza Covid, le campagne di vaccinazione e il salvataggio del paese dalla pandemia, sarebbero esperienze fondative per il fu governo giallorosso, e poi per il fu campo largo. Ma un appello comune non è arrivato.
Colpa dell’aria che tira nel centrosinistra. In realtà, dopo giorni di attacchi abrasivi al Pd, ieri Giuseppe Conte ha riaperto uno spiraglio al suo aspirante alleato, durante la presentazione di un libro, dialogando con Gianni Cuperlo, ala sinistra dei democratici. Il presidente M5s ha spiegato che «non basta dirsi antifascisti» per mettersi insieme ma, per un giorno, ha lasciato capire che dalle sue critiche al partito di Elly Schlein non bisogna trarre conclusioni affrettate: «Massima disponibilità al dialogo» epperò «per noi non è importante soltanto arrivare a formulare una proposta di governo, ma la qualità di questa proposta, la solidità, la credibilità».
La novità è una riflessione laica sull’alleanza futura: «Abbiamo il tempo per costruire un’alternativa seria a questo governo. Però il problema non è solo arrivare a Chigi ma che cosa fai dal giorno successivo per cambiare davvero l’Italia». Altrimenti «saremo sì testardamente convinti di andare a Chigi» – l’ironia è all’indirizzo della segretaria che si professa «testardamente unitaria» – «ma una volta preso possesso di quelle stanze, il giorno dopo avremo molte difficoltà». Cuperlo ha esibito grande pazienza: «Mi appello alla matematica. Ad Archimede, Newton.
Come diceva Totò, è la somma che fa il totale, cioè aiuta a capire che per essere competitivi dobbiamo stare uniti, ovviamente uniti sulla base di una comune visione del paese del “dopo” la destra. Il problema è se c’è la volontà di andare in questa direzione. Da parte nostra c’è, mi auguro anche da parte del M5s». La volontà c’è, almeno ieri c’era. E allora, ha concluso, «dobbiamo sederci a un tavolo».
Il tavolo e i tavolini
Il tavolo però non arriva. Nelle scorse settimane si sono materializzati alcuni “tavolini”. Quelli dei tecnici delle forze politiche, tutte tranne Iv, che hanno messo a punto una breve serie di emendamenti comuni alla finanziaria: su salario minimo, congedi paritari, ripristino del fondo per l’automotive e sanità. Spiega Arturo Scotto, che ha partecipato agli incontri sul salario, «quando ti metti insieme sulle cose fondamentali come sanità e lavoro hai già abbozzato un pezzo del programma di governo. Arriveranno altre frizioni su singoli temi in futuro, ma quando firmi insieme gli emendamenti sulle cose che interessano materialmente la vita delle persone più deboli ed escluse hai già fatto un pezzo di strada decisivo».
Poco prima, però, M5s e Avs avevano dato l’altolà al Pd sul decreto SalvaMilano, votato alla Camera dai dem con la destra. Un’intimazione al Nazareno: «Fermatevi».
Il Pd: unitari e pedalare
Dunque come si può vedere il bicchiere della futura alleanza mezzo pieno? «Sui giornali si parla delle divisioni del centrosinistra, che ci sono: ma in questi mesi abbiamo trovato sintesi comuni su temi importanti», ragiona Matteo Orfini (Pd), oltre a quelli della finanziaria si può aggiungere l’autonomia differenziata, la scuola e l’università, il no al modello Albania. Per Orfini, da qui al 2027, c’è tutto il tempo per costruire altre convergenze: «Non dimentichiamoci che la destra, prima di rimettersi insieme e vincere le elezioni del 2022, era divisa. FI e Lega al governo con Draghi, Meloni all’opposizione».
Per ora bisogna armarsi di pazienza: la vittoria di Conte su Grillo lo porta «fisiologicamente» ad alzare i toni. Sabato l’ex premier sarà ospite di Atreju, la festa nazionale di FdI, da dove, c’è chi ci scommette, tenterà di infilarsi nella “polarizzazione” dello scontro fra Meloni e Schlein. Nello stesso giorno Pd e M5s saranno a Roma nella piazza convocata dal movimento contro il ddl Sicurezza. Il Pd tira dritto per la sua strada, ignorando la sfida a sinistra e conservando la postura di forza unitaria. Secondo il Nazareno è la ragione per cui viene premiato nelle urne, Schlein lo ribadirà sabato all’assemblea nazionale del partito.
I rissosi invece perdono voti, da M5s ai centristi. I quali ultimi, a loro volta, non danno segnali di ravvedimento unitario. Matteo Renzi fa professione di alleanza, ma indica in Schlein la candidata premier, cosa che indispettisce Conte; Carlo Calenda prepara il congresso di Azione, che si svolgerà a febbraio e giocoforza discuterà anche di alleanze. Alle quali, all’ultimo congresso, Calenda aveva detto no «sul mio corpo». Dagli ambienti del cattolicesimo democratico si intravede una leadership potenziale, quella di Ernesto Maria Ruffini, attuale direttore dell’Agenzia delle entrate (che mediterebbe però di lasciare per dedicarsi al «bene comune»). Da Iv è arrivato qualche segnale di interesse, da Azione no. C’è chi lo indica come federatore di tutta la coalizione. Ma dal Pd c’è chi ironizza: «Non sta né in Cielo, né in terra».
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