- La radice dei problemi contemporanei va individuata nella parola "insicurezza", oltre che nella “disuguaglianza”. Quest'ultima può essere discussa tramite analisi numeriche, mentre l'insicurezza è un concetto sfuggente e difficile da misurare.
- L'insicurezza rappresenta la precarietà, l'instabilità e la sensazione di non essere mai a posto nel contesto sociale in cui si vive.
- L'insicurezza provoca dubbi che minacciano la stabilità mentale e può portare a una sorta di depressione sociale diffusa, in cui le persone si sentono paralizzate all'interno di un sistema asfittico, senza riuscire a cambiare la propria situazione.
Penso sia interessante individuare nella parola “insicurezza”, e non solo nella parola “disuguaglianza”, la radice di una serie di problemi contemporanei. La disuguaglianza in senso economico è solitamente discussa tramite ragionamenti analitici sulla distribuzione del patrimonio, del reddito, del salario. Ragionamenti come "quanta ricchezza è in mano all’un percento della popolazione”. La disuguaglianza permette di costruire grafici e indici.
Questo non significa che sia semplice parlarne, perché al di là del dato numerico, che evidenzia un problema crescente in molte società, la sua discussione incontra barriere ideologiche, e alcuni semplicemente rifiutano l’argomento.
Magari non apertamente, ma come atteggiamento di fondo: non ritengono sia importante ridurre le disuguaglianze che osserviamo. Altri trattano l’argomento, ma subito lo deformano, talvolta riconoscendo la necessità di dare alle persone pari opportunità in base ai meriti, ma trascurando i limiti evidenti della meritocrazia, un meccanismo che non tiene conto della disuguaglianza dei punti di partenza.
Tuttavia, nonostante i detrattori e coloro che banalizzano, la disuguaglianza è accettata come tema che ha una sua dignità. Forse proprio perché è possibile inserirlo in una cornice analitica: sembra comunque una cosa seria.
L’insicurezza
L’insicurezza invece è un concetto sfuggente, più vasto e qualitativo, difficilmente misurabile, e per certi versi preso in giro, oggi più che mai. L’insicurezza è la precarietà in senso lato, è l’instabilità. È la sensazione di non essere mai a posto dove ci si trova.
A posto non solo nel senso di “arrivati” o “realizzati” (questo non è nemmeno considerato fondamentale da tutti), e non solo in senso numerico, e di posizione su una scala dal povero al ricco, ma anche nel senso più semplice e forse primario del sentirsi sereni nella società in cui si vive. Non esposti a minacce, a imprevedibilità, all’impossibilità di esprimersi, di vivere liberamente. L’insicurezza è anche un nuovo gruppo di potere che cancella delle conquiste che si davano per fatte, modificando in poco tempo interi orizzonti esistenziali.
L’insicurezza è poi lo scarso riconoscimento di quello che si fa, la mancanza di rispetto per il lavoro e lo studio. La retorica dei giovani che non vogliono fare nulla, la realtà delle condizioni occupazionali insultanti, l’istruzione ridotta a professionalizzazione. L’insicurezza è l’assenza di servizi e la solitudine che ne deriva. La pandemia sembrava avesse reso tutte le insicurezze molto visibili in vari sensi. Sembrava offrire un’occasione di riflessione (che non c’è stata).
L’insicurezza è infine quell’insieme di dubbi, anche di entità non grave in senso pratico, che minacciano la stabilità mentale. Il dubbio non è sempre un male, anzi quando è vissuto correttamente produce verità. Il problema è quando il dubbio paralizza l’individuo all’interno di un sistema a sua volta asfittico e vischioso, producendo esistenze che si muovono a fatica o non si muovono del tutto.
In questa situazione, il dubbio non sprona. Non produce risultati interessanti. Alla persona restano solo delle parole con le quali cerca ogni tanto di motivarsi, ripetendo gli slogan della produttività e del successo, senza però riuscire a cambiare le cose per sé.
Una depressione sociale
Ho sempre avuto timore di quando facciamo, fra noi e noi, grandi programmi e discorsi che servono a motivarci, farai questo, farai quello, datti una mossa. Molti di noi in realtà funzionano meglio nella casualità di una passeggiata. Molti di noi diventano produttivi in maniera improvvisa e intensa, senza preavviso.
Rileggo spesso i diari di Sylvia Plath. Una persona che di certo provò a essere produttiva nella sua professione (la scrittura). Tentò il suicidio la prima volta nell’agosto del 1953. Le ultime pagine di diario prima di quel tentativo di suicidio sono un martellamento continuo di frasi motivazionali. È abbastanza spaventoso. Ci sono le frasi scritte tutte in maiuscolo e molti imperativi. «Cogli l’occasione, bimba – impara a stenografare, studia il francese: PENSA IN MODO COSTRUTTIVO – e mostra un po’ di rispetto per te stessa».
Naturalmente la storia di Sylvia Plath è individuale. Ma in qualche modo oggi la depressione sembra uscire dalla dimensione individuale per diventare un tratto sociale che più facilmente sfiora tutti. Una struttura che si impossessa della realtà. Come spesso accade quando parlo di certi argomenti, qualcuno mi dirà che una poetessa americana depressa non rappresenta nessuno, e che noi siamo il paese del sole, del mare, del turismo e dei ristoranti.
© Riproduzione riservata