Mette un po’ di tristezza e frustrazione dover discutere della nuova, terribile, dicitura del ministero dell’istruzione che aggiunge merito alla vecchia. La bibliografia critica, accademica, divulgativa, giornalistica, che problematizza i concetti di merito e meritocrazia in questi ultimi anni è diventata talmente corposa che si poteva pensare che fraintendimenti e alterazioni non contagiassero persino i nomi dei ministeri.
Eppure questo governo di post-fascisti ha voluto essere prevedibile anche in questo: come nel ventennio, si ribattezza dove si può.
Ripercorriamo allora sinteticamente questo dibattito almeno trentennale (in Italia) e cerchiamo di contestualizzare il modo in cui il nuovo ministro Giuseppe Valditara e il suo governo vorranno interpretare il senso di questa rinominazione.
Il primo testo importante da recuperare è un articolo di Bruno Trentin, storico sindacalista della Cgil, sull’Unità, del 2006.
È l’ultimo articolo che pubblica prima di morire; oggi è reperibile in rete per intero, ma purtroppo non sull’archivio dell’Unità, che non esiste più come il suo giornale (un’altra delle responsabilità del renzismo). Trentin esordiva così il suo pezzo intitolato A proposito del merito così:
«La meritocrazia come criterio di selezione degli individui al lavoro ritorna alla moda nel linguaggio della sinistra e del centrosinistra, dopo il 1989; ma prima ancora con la scoperta fatta da Claudio Martelli a un Congresso del Psi sulla validità di una società "dei meriti e dei bisogni”.
In realtà, sin dall’illuminismo, la meritocrazia che presupponeva la legittimazione della decisione discrezionale di un «governante», sia esso un caporeparto, un capo ufficio, un barone universitario o, naturalmente un politico inserito nella macchina di governo, era stata respinta.
Era stata respinta come una sostituzione della formazione e dell’educazione, che solo possono essere assunte come criterio di riconoscimento dell’attitudine di qualsiasi lavoratore di svolgere la funzione alla quale era candidato. Già Rousseau e, con lui, Condorcet respingevano con rigore qualsiasi criterio, diverso dalla conoscenza e dalla qualificazione specializzata, di valutazione del «valore» della persona e lo riconoscevano come una mera espressione di un potere autoritario e discriminatorio.
Ma da allora, con il sopravvento nel mondo delle imprese di una cultura del potere e dell’autorità il ricorso al «merito» (e non solo e non tanto alla qualificazione e alla competenza accertata) ha sempre avuto il ruolo di sancire, dalla prima rivoluzione industriale al fordismo, il potere indivisibile del padrone o del governante».
Basterebbe riscoprire la lucidità di Trentin per eliminare le ambiguità che si sono incistate nelle retoriche del merito; ma evidentemente l’ignoranza storica e le mistificazioni hanno spesso avuto la meglio.
Tra gli sbandieratori del vessillo di questo concetto di merito classista e escludente ci sono diversi intellettuali che si sono occupati di scuola e di politiche dell’educazone: Roger Abranavel, autore di Meritocrazia (2015, «L’esigenza di restituire alla scuola italiana la sua capacità di certificare il merito in modo credibile».); Ernesto Galli della Loggia (2017: «Nella scuola italiana è bandito ogni autentico criterio di selezione e quindi di reale accertamento del merito. Le cause sono molte. Di gran lunga la principale è l’ideologia fondata sulla categoria di “inclusione” che da decenni domina la nostra istituzione scolastica»), Luca Ricolfi, nel saggio pubblicato con Paola Mastrocola Il danno scolastico…
A poco sono valse le disamine puntuali di queste retoriche: Francesca Coin già nel 2010 coglieva come l’ideologia velenosa del merito avesse intossicato prima il dibattito pubblico e poi la discussione parlamentare sulla riforma universitaria.
E poi occorre citare: Girolamo De Michele (La scuola è di tutti) Valeria Pinto (Valutare e punire), Beatrice Bonato (Sospendere la competizione) e Federica Sgaggio che per prima ricostruisce in Italia la singolare vicenda del concetto di meritocrazia.
Il governo dei meritocratici
Il sociologo Michael Young si inventò nel 1958 in un romanzo-saggio un futuro allora molto lontano, il 2033, in cui la società sarebbe stata governata dai “meritocratici”, una specie di élite scelta attraverso una selezione infinita compiuta attraverso test d’intelligenza somministrati fin dalla scuola elementare. La conclusione, nel libro di Young, è che un’apparente possibilità utopica si rivelava grottescamente distopica.
Anche nella realtà a Michael Young toccò in sorte un becero fraintendimento: alla sua morte Tony Blair volle omaggiarlo sul Guardian di un elogio funebre.
Solo sei mesi prima, dalle colonne dello stesso Guardian e sotto il titolo di Abbasso la meritocrazia, Young aveva dovuto essere didascalico e non era stato altrettanto generoso nei confronti di Blair: «È altamente improbabile che il primo ministro abbia letto il libro L’avvento della meritocrazia, ma s’è aggrappato alla parola senza rendersi conto dei pericoli di ciò che stava politicamente sostenendo. Sarebbe d’aiuto se il signor Blair abolisse la parola "meritocrazia” dal suo vocabolario pubblico, o almeno ne ammettesse gli effetti negativi indesiderati».
Michael Young è vissuto abbastanza per vedere che tipo di ricezione sballata avesse avuto il suo libro, che si scagliava contro i fanatici della cosiddetta terza via blairiana: «La meritocrazia serve ad alimentare un business che va di moda. Se i meritocrati credono che il loro avanzamento dipende da ciò che gli spetta, si convinceranno che meritano qualsiasi cosa possono avere».
Per fortuna il suo libro è stato meritoriamente ritradotto nel 2014 dalle Edizioni di Comunità, con il titolo L’avvento della meritocrazia, e possiamo rintracciare facilmente la paradossalità eversiva di Young.
Quella stessa che ricordano anche altri testi usciti negli anni ancora più recenti: Contro l’ideologia del merito di Mauro Boarrelli (2019), La tirannia del merito di Michael J. Sandel (2021), tra i davvero molti; e non abbiamo citato altro della sterminata bibliografia di ambito più pedagogico e didattico.
La farsa di ritorno
Comunque non c’è verso di liberarsi di questa malattia retorica infestante. Merito e meritocrazia, a volte ritornano e come tragedia e come farsa. Maria Stella Gelmini, la fautrice della peggiore riforma della scuola di sempre, promosse con Giulio Tremonti addirittura una Fondazione per il merito – oggi è rimasto un sito governativo fantasma.
Oggi ci ritroviamo ministro il suo braccio destro di allora, Giuseppe Valditara. Anche lui negli anni passati si è voluto cimentare nell’esercizio di invenzione del merito.
Nel suo testo spregiudicato sul tardo antico dall’eloquente titolo L’immigrazione nell’antica Roma: una questione attuale reintrepreta con mediocri categorie contemporanee prima l’editto di Caracalla e poi la crisi dell’impero romano:
«A partire dal 212 un unico diritto e un'unica posizione giuridica si estenderanno dunque dalla Britannia fino alla Mesopotamia, dal Mare del Nord al Nilo "Fecisti patriam diversis gentibus unam": di tanti popoli facesti un'unica patria, così scriveva Rutilio Namaziano. Tante genti, tutti uniti nella diversità, ma ancora una volta "a certe condizioni", quelle dell'interesse di Roma.
Quel piccolo villaggio nato sui sette colli dall'incontro di popoli diversi per lingua e costumi portava a compimento la sua missione di estensione globale della civiltà che da lì si era sviluppata, nell'incontro e nella contaminazione dei diversi con il costante sforzo di "migliorare" la società romana, accogliendo i meritevoli ed escludendo gli indegni.
Una missione che, senza quelle "certe condizioni", sarebbe stata impossibile. Un ammonimento anche per noi e per il futuro della nostra civiltà»”
La forzatura storica di Valditara si qualifica da sola: un abuso pubblico della storia, ma rivela una ignoranza distorsiva ancora più interessante nel parallelo tra quest’idea distorta di “meritevoli” e quelli che vengono citati dalla Costituzione italiana all’articolo 34.
Occorrerebbe rileggersi bene il dibattito della Costituente sulla scuola, e riconoscere come già allora tra le parole dei liberali e quelle dei socialisti allignasse la possibilità di futuri possibili fraintendimenti. Ma questa è un’altra storia, per fortuna più luminosa, che magari ricostruiremo in un’altra occasione.
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