- Da anni, dopo la fine di Dc e Pci, i leader italiani lanciano l’idea di costruire dei “partiti unici”.
- Per Silvio Berlusconi, che oggi propone un partito unico FI-Lega, è diventata una vera e proprio ossessione.
- Ma si tratta solo di alchimie elettorali, che spesso non convincono gli elettori, e finiscono con il dividersi in mille partitini più piccoli.
Unico. Deve essere il fascino dell’aggettivo. Quel suo evocare un senso di perfezione primaria. Una sensazione illusoria di stabilità e forza. Non si spiega diversamente l’ossessione con cui da anni, esponenti politici di centrodestra e centrosinistra, dopo lo sgretolamento di Dc e Pci, insistono nel riproporre nel dibattito pubblico, con cadenza più o meno regolare, la discussione sul partito unico.
C’è in questa idea un misto di nostalgia e speranza. Quasi che il ritorno al passato glorioso dei “grandi blocchi”, fosse l’unica possibilità per garantire un futuro alla nostra democrazia.
Per Silvio Berlusconi è quasi un’ossessione. È dal 1994, quando il neonato centrodestra a trazione Forza Italia si è presentato alle urne sotto le insegne del Polo delle libertà (nord Italia) e del Polo del buon governo (centro-sud), che il tentativo di costruire un partito unico vive di frenate e ripartenze. Che sia la “casa italiana” del popolari europei o il Popolo della libertà poco importa. Oggi tocca al Centrodestra italiano (questo sarebbe il nome scelto dall’ex Cavaliere). Un contenitore per celebrare il matrimonio tra ciò che resta di FI e la Lega di Matteo Salvini. Matrimonio d’interessi, s’intende.
Perché il partito unico è semplicemente un’alchimia fondata sull’errata convinzione che per vincere le elezioni basti sommare gli elettori. Anche il Pd, in fondo, è nato dall’idea che per battere Berlusconi, sulla scia di quanto accaduto con l’Ulivo e con l’Unione, bastasse sommare Ds e Margherita. Normalmente, bisogna riconoscerlo, il primo impatto con le urne è positivo (il Pd, pur sconfitto, nel 2008 ha preso più di 12 milioni di voti).
Ma in assenza di un progetto politico comune, col tempo, l’unità comincia a venir meno e il risultato è il proliferare di piccoli, a volte piccolissimi partiti personali creati da delusi, reduci e transfughi. Non a caso oggi il Pd, nei sondaggi, è accreditato del 18,8 per cento. Poco più di un punto percentuale dal miserrimo 17,5 per cento che i Ds, da soli, avevano raccolto alle politiche del 2006. La fusione con la Margherita, insomma, non sembra aver prodotto una storia di successo.
Certo, la politica è in continuo mutamento e non sempre ciò che sembra un’ottima idea nel presente lo è anche nel futuro. Ma forse il problema è proprio nell’origine. Nell’Italia dei campanili e degli interessi particolari, è difficile pensare che possa nascere un partito unico in grado di rappresentare allo stesso modo chi vota Meloni, Berlusconi e Salvini. Per sopravvivere servirebbe, se unico deve essere, che il partito tanto sognato fosse l’unico esistente. Senza avversari. Ma quella è un’altra storia. E gli italiani, di sicuro, non hanno alcuna intenzione di riviverla.
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