- Dopo la vittoria del centrodestra alle elezioni del 2008, l’allora leader di Alleanza nazionale e presidente della Camera Gianfranco Fini inizia una sua strategia personale per accreditarsi con il centrosinistra come il riferimento moderato e affidabile nel suo schieramento.
- Oggi Berlusconi sta cercando di fare lo stesso rispetto a un centrodestra dominato dalla Lega di Matteo Salvini. Per Fini, dopo lo strappo del 2010, non é finita bene.
- Salvini deve ora decidere cosa fare, se cercare di tenere insieme una coalizione ibrida, parte populista e sovranista, parte moderata, so se spingere verso il populismo che tanti consensi gli ha portato.
Ironie della cronaca politica (tirare in ballo la storia sarebbe, in questo caso, eccessivo). Una dozzina di anni orsono, ottenuta dagli alleati la presidenza della Camera – un ruolo di prestigio che si sperava lo trattenesse dall’immischiarsi troppo da vicino nelle vicende del governo, cui in passato aveva già provocato tensioni per smarcare l’immagine sua e del suo partito da quella della Lega –, Gianfranco Fini iniziò una personale strategia di logoramento della coalizione della quale faceva parte.
A poco a poco, e con ritmo sempre più incalzante, prese a tirare frecciate a Silvio Berlusconi, alternando esternazioni polemiche e silenzi più che eloquenti, richiami al galateo istituzionale e scostamenti di linea politica, critiche aperte e battutine “fuori onda” destinate ad alimentare il giornalismo retroscenista.
In breve divenne chiaro che il suo obiettivo era, in una stagione quotidianamente ravvivata dalle rivelazioni scandalistiche sui comportamenti privati dell’allora presidente del consiglio, forgiarsi l’immagine di unica alternativa plausibile e decente al leader del Popolo delle libertà, di cui le molteplici disavventure giudiziarie facevano ipotizzare una forzosa uscita di scena.
Per riuscire nell’intento c’era una sola via, data anche l’indisponibilità di Umberto Bossi a tramare un ribaltone: accreditarsi come il solo politico del centrodestra ragionevole ed affidabile, disposto all’interlocuzione e al compromesso, moderato nei toni e nelle opinioni, presso il fronte avversario.
L’illusione della diversità
Il gioco di sponda con il centrosinistra diventò così una prassi quotidiana del presidente di Alleanza nazionale, anche a costo di scontentare prima e inimicarsi poi una consistente parte dei dirigenti e dei militanti del suo stesso campo. E i destinatari del suo messaggio mostrarono di apprezzarlo, moltiplicando le prese d’atto della sua “diversità”, che lo rendeva un possibile compagno di strada nella prospettiva di un governo istituzionale o di salute pubblica.
Quando poi intervenne la plateale rottura con l’alleato-avversario (qualcuno ricorderà il «che fai, mi cacci?» gettato astiosamente in faccia al premier in una riunione del partito di cui entrambi erano stati fondatori), il gioco si fece per forza di cose ancora più scoperto, fino al tentativo di spallata in sede di voto di fiducia con il sostegno del suo manipolo di scissionisti.
L’azzardo finì male e con la caduta del governo precipitò anche la carriera dello sfidante, annegato con il suo partitino nella palude degli zero virgola. Ma lo schema che lo aveva ispirato deve essere rimasto impresso nella mente di Berlusconi, che dopo la delusione dell’esito delle urne del 2018 lo ha ora rispolverato a proprio uso e consumo.
Come a suo tempo Fini nei suoi confronti, l’ex Cavaliere ha oggi solidi motivi di rancore verso i teorici partner di coalizione.
La sua creatura politica, dopo essere stata prima superata e poi, alle europee, surclassata elettoralmente dalla Lega, è ormai nettamente distanziata anche da Fratelli d’Italia ed arranca nei sondaggi poco al di sopra della cifra utile a sopravvivere a una futura soglia di sbarramento. Salvini e Meloni ne hanno offuscato e resa subalterna l’immagine, onta che il suo ego certamente non riesce a sopportare.
Una parte dei dirigenti che aveva creato a sua immagine e somiglianza gli ha voltato le spalle ed è emigrata altrove, mentre anche fra i fedelissimi il vento di fronda spira a giorni alterni.
Per non parlare della ripresa di un ciclo di inchieste giudiziarie per corruzione in cui esponenti di Forza Italia figurano costantemente in prima fila. Sopportare ancora questo carico di delusioni senza reagire sarebbe stato troppo. Ed era evidente che il vecchio leone attendeva l’occasione adatta per tirare l’ultima zampata. L’emergenza-Covid pare avergliela fornita.
Il rientro nella politica
Fin dall’inizio della pandemia, Berlusconi non aveva nascosto una divergenza di vedute dagli alleati, che zigzagavano fra appelli alla chiusura totale, diffidenze verso l’uso delle mascherine ed ammiccamenti ai sostenitori della minaccia di una “dittatura sanitaria”.
I frequenti richiami all’interesse del paese e lo sfoggio di moderazione nei giudizi sulle iniziative del governo – anche quando i portavoce di Forza Italia indulgevano a toni duri nelle aule parlamentari – lasciavano intuire la voglia di ritagliarsi uno spazio autonomo. E soprattutto nella posizione da prendere verso l’Unione europea il dissenso è gradualmente cresciuto.
Quando la seconda ondata epidemica ha riproposto la questione delle chiusure di attività produttive e dei confinamenti, i primi accenni all’opportunità di un dialogo con l’opposizione di Renzi, Conte e Zingaretti hanno allargato il solco e tracciato i contorni di un nuovo possibile percorso. E Berlusconi ha capito di poter ottenere sul versante governativo quello che la permanenza all’opposizione gli negherebbe: un pieno rientro nella politica che conta.
Non è detto che questa partita comporti l’ingresso in un nuovo esecutivo allargato, che sarebbe indigeribile ai Cinque Stelle. Ma di certo gli fornisce varie armi. Gli fa esercitare un potere di ricatto su Salvini e Meloni, che avrebbero auspicato un suo silenzioso tramonto nel più breve tempo possibile.
Rende più accettabile la prospettiva della convergenza in un piccolo blocco centrista con Italia Viva, Calenda, Udc e altri frammenti, nel caso di una legge elettorale propizia ad una simile riaggregazione.
Stuzzica in alcune frange del Pd la tentazione di rompere il controverso patto di governo con il Movimento Cinque stelle e varare una nuova maggioranza più o meno emergenziale non sgradita a Mattarella, e in subordine di agitare lo spauracchio di Forza Italia per arginare le pretese dell’alleato. E, dato non del tutto secondario, consente di gettare più solide teste di ponte verso chi nella Lega, Giancarlo Giorgetti in testa, da tempo vorrebbe dare una decisa sterzata verso il centro “moderato” alla coalizione.
La partita non è semplice e potrebbe sfociare in una débâcle come nella versione finiana, e la fuoriuscita di Laura Ravetto ed altri due deputati da Forza Italia dimostra che, invece di compattare il partito potrebbe accelerarne la liquefazione, ma è chiaro che Berlusconi intende giocarla. Salvini, che pareva sin qui non essersene accorto, ha forse deciso di prenderne atto. Forse dovrebbe capire, da questo ennesimo segnale, che legare le sue sorti ad una coalizione da sempre ibrida ed eterogenea invece che al messaggio trasversale populista che tanto gli aveva giovato negli ultimi due anni rischia di essere un errore capitale.
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