- La premier Meloni porta avanti una strategia nettamente atlantista cercando la collaborazione dei paesi dell’est.
- Schlein dovrebbe invece puntare sulla mobilitazione delle forze progressiste europee, a partire da quelle che esprimono i governi di Germania e Francia.
- Si potrebbe puntare al consolidamento e all’espansione dello schema di protezione temporanea per i richiedenti asilo, rafforzando la solidarietà europea per chi scappa da conflitti e persecuzioni. E istituire fin da ora un fondo per la ricostruzione dell’Ucraina, un Next Generation Ukraine che coordini gli sforzi dei 27 Stati membri.
Elly Schlein ha conquistato le primarie del Pd presentandosi come la candidata del cambiamento. Come farà a mantenere la promessa in politica estera, settore che, per sua natura e sensibilità, è inadatto a semplificazioni e scarti improvvisi?
Difficilmente sarà messa in discussione la linea assunta fin qui sull’Ucraina, magari cadendo in una trappola architettata ad arte da Giuseppe Conte con la presentazione di una mozione sull’invio di armi a Kiev.
Per fortuna, un convincimento pare ormai consolidato nel comune sentire della base del partito: smettere di sostenere le forze ucraine significa incoraggiare una nuova offensiva russa in tutto il paese, allargando e inasprendo il conflitto.
Di converso, quindi, volere la pace significa aiutare l’Ucraina con ogni mezzo, anche quello militare.
Secondo un recente sondaggio Ipsos, il 52 per cento degli elettori del Pd è favorevole all’invio di armi, contro solo il 36 per cento contrari. Situazione ribaltata nel Movimento Cinque stelle, dove il 54 per cento degli elettori sono contro e soltanto il 30 per cento favorevoli. Se Schlein vuole cambiare linea al Pd, il sostegno a Kiev non sembra un buon candidato.
Cosa può fare
La nuova segretaria ha invece parlato di un ruolo accresciuto dell’Unione europea per la pace, e questo potrebbe effettivamente essere la cifra dell’azione politica del nuovo Pd, anche per non rimanere schiacciati sulla posizione di Giorgia Meloni.
La premier porta avanti una strategia nettamente atlantista cercando la collaborazione dei paesi dell’est.
Schlein dovrebbe invece puntare sulla mobilitazione delle forze progressiste europee, a partire da quelle che esprimono i governi di Germania e Francia.
Questa mobilitazione non può focalizzarsi sull’ottenere un cessate il fuoco che permetta un negoziato tra le parti per arrivare ad una pace giusta ed equa.
Non ci sono semplicemente le condizioni sul terreno: la Russia intende ancora vincere la guerra e non è pronta a concedere alcunché.
Dunque, consolidare la via europea alla pace oggi significa principalmente creare le condizioni per fornire ai paesi del vicinato la stabilità in un futuro post-bellico, agendo in sinergia ma in maniera autonoma dall’alleato statunitense.
Questo implica in primo luogo un consolidamento dell’integrazione dell’Ue, che dovrebbe unire tutte le forze politiche che perseguono l’obiettivo di una sovranità europea condivisa e che si gioverebbe della leadership del principale partito progressista italiano.
Da dove cominciare
Le iniziative prioritarie dovrebbero riguardare i settori maggiormente impattati dalla guerra.
Si potrebbe pensare a nuovi schemi di finanziamento dell’approvvigionamento energetico attraverso debito comune, sul modello di quanto fatto, in un altro settore, con Sure (il pacchetto da 100 miliardi di euro di prestiti per finanziare la cassa integrazione negli anni del Covid), ma anche ad un fondo di acquisizione comune degli armamenti, nella cornice dello Strumento europeo per la pace, per assicurare la sostenibilità degli aiuti all’Ucraina.
Si potrebbe puntare al consolidamento e all’espansione dello schema di protezione temporanea per i richiedenti asilo, rafforzando la solidarietà europea per chi scappa da conflitti e persecuzioni.
Si dovrebbe istituire fin da ora un fondo per la ricostruzione dell’Ucraina, un Next Generation Ukraine che coordini gli sforzi dei 27 Stati membri evitando la frammentazione degli aiuti e profilando al contempo il ruolo dell’Unione come il principale agente di sviluppo.
C’è poi la grande prospettiva dell’allargamento, che potrebbe portare l’Unione a 35 o forse più Stati membri.
Progetto coraggioso e ambizioso, che però richiede una serie di riforme per approfondire l’integrazione e permettere al sistema di funzionare.
Questo passa per l’ampliamento del voto a maggioranza qualificata anche a settori come la politica estera per evitare che l’Unione rimanga ostaggio dei veti di singoli governi, ma anche per cambiamenti che rafforzino il ruolo delle istituzioni comuni e le rendano più democratiche: un parlamento europeo dotato di iniziativa legislativa diretta, un legame formale tra i risultati delle elezioni europee e la scelta del presidente della Commissione, un Consiglio dei Ministri della difesa.
La prossima legislatura dovrà quindi inaugurare una vera fase costituente per l’Unione.
L’agenda è ricca e le sfide sono molte, ma proprio per questo c’è l’opportunità per caratterizzare una politica estera progressista, europeista, che vuole farsi portavoce di democrazia e diritti.
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