- Il governo preferisce una stretta e una definizione fuorviante di occupabili, anziché concentrarsi sulle vere criticità della misura
- A partire da settembre dovrebbe partire la Misura di inclusione attiva (Mia), il nuovo Reddito di cittadinanza. A parte il nome e la riduzione delle risorse a disposizione, il Mia non è molto diverso dal Reddito di cittadinanza
- Il governo ha preferito concentrarsi anche questa volte sui tagli anziché sull’efficacia, ignorando che ogni euro tolto al RdC è un euro tolto al contrasto alla povertà
Stando alle anticipazioni, sul nuovo Reddito di cittadinanza il governo sembra volersi muovere con il solo obiettivo di ridurre i costi, senza considerare le conseguenze dei tagli.
La nuova misura non è ancora stata definita in maniera chiara, ma è già possibile ricostruirne alcune caratteristiche da varie indiscrezioni.
Il nuovo sussidio contro la povertà dovrebbe chiamarsi Misura di inclusione attiva (Mia) e si rivolgerà sia ai cosiddetti occupabili che ai non occupabili.
Già la distinzione tra le due categorie dimostra un certo livello di superficialità: sono considerati infatti non occupabili i membri di una famiglia che abbia tra i suoi componenti un minore, un anziano (più di sessant’anni) o un disabile.
Anziché concentrarsi sulle competenze e sulle carriere professionali dei singoli (un lavoro che si riuscirebbe a fare con centri per l’impiego efficienti), ci si concentra su caratteristiche che sembrano quasi legate al senso comune, più che alle difficoltà effettive che si incontrano sul mercato del lavoro.
Per esempio, perché una quarantenne con un figlio adolescente non dovrebbe essere in grado di lavorare? O un ragazzo di trent’anni che vive con i genitori sessantenni?
Sarebbe piuttosto il caso di offrire a questi “non occupabili” un supporto per riuscire a lavorare nonostante la necessità di prendersi cura dei propri familiari. Ma, su questo, il governo non sembra essere particolarmente interessato, né per i poveri che ricevono il RdC, né per tutti gli altri.
Per quanto riguarda l’importo del sussidio, la nuova misura dovrebbe rimanere sostanzialmente invariata per i non occupabili, con un valore base pari a 500 euro per i single e una durata della misura di 18 mesi, rinnovabili senza un limite massimo di richieste finché si rimane nella condizione di non occupabile.
Per gli occupabili, invece, l’importo base sarà di 375 euro. Un valore del sussidio minore per chi può lavorare sembra un’idea sensata, ma in realtà non ha grande impatto nel rendere la misura più efficace.
Se una persona è in grado di lavorare e guadagnare un buono stipendio, infatti, non avrà alcun vantaggio a prendere un sussidio ben inferiore a quanto si guadagna con un normale impiego.
Ma allora perché queste persone non lavorano anziché ricevere il Reddito di cittadinanza? Semplice: le persone considerate occupabili nella maggior parte dei casi non lo sono.
Si fa presto a dire occupabili
Le persone che ricevono il RdC o che riceveranno il Mia sono spesso poco scolarizzate, hanno lavorato poco nella vita o non lo hanno mai fatto e si trovano in aree in cui trovare un lavoro può essere molto complicato.
Il governo aveva promesso il rilancio delle politiche attive, ossia gli interventi che aiutano i disoccupati nell’orientamento e nell’inserimento all’interno del mercato del lavoro, ma finora non si è fatto nulla di particolarmente diverso rispetto agli esecutivi precedenti.
Secondo alcune stime, gli occupabili sono tra 550 e 600 mila. La ministra del Lavoro Marina Calderone ha dichiarato che sono già 47 mila i percettori di Reddito di cittadinanza occupabili che sono stati inseriti in percorsi di formazione per il reinserimento nel mercato del lavoro.
Tralasciando il fatto che meno di 1 su 10 non è esattamente un risultato di cui vantarsi, è importante considerare il successo di queste attività.
Le politiche attive non sono infatti un semplice corso in cui si insegna un mestiere al disoccupato.
Prevedono un momento di orientamento iniziale, in cui si stabilisce il profilo del lavoratore, dalle aspirazioni, alle competenze fino alle esperienze professionali nel passato.
Sulla base di questo curriculum, si dovrebbe inserire il disoccupato all’interno di un percorso di riqualificazione professionale, che possa migliorare le sue competenze sul lavoro, ma anche le cosiddette soft skill.
Spesso, infatti, le persone che si rivolgono ai centri per l’impiego non sanno nemmeno come compilare un curriculum o come affrontare un colloquio di lavoro. Infine, il centro per l’impiego dovrebbe aiutare il disoccupato a trovare un lavoro consono alle sue competenze e alle sue aspirazioni.
Quanto di questo è stato fatto per i 47 mila percettori di cui parla Calderone? Nulla. Come sottolineato da Francesco Seghezzi, di fatto i percorsi semestrali per il reinserimento al lavoro di questi disoccupati non sono mai stati nemmeno avviati.
Qualche notizia positiva
Ci sono almeno tre elementi positivi nella riforma prevista dal governo: il primo è la decisione di coinvolgere nella formazione dei percettori del Mia anche le agenzie private per il lavoro.
Finora ci si era solo affidati ai centri per l’impiego pubblici, che risentono di una scarsa organizzazione e di una carenza strutturale di personale.
Questo non significa eliminare le agenzie pubbliche, ma sfruttare le competenze e l’organizzazione attualmente superiori del privato per garantire un servizio migliore ai disoccupati, in attesa di una radicale riforma dei centri per l’impiego che è attesa almeno dal 2016.
Un secondo elemento positivo è il probabile abbassamento a cinque anni del requisito minimo di residenza in Italia.
Finora, per beneficiare del Reddito di cittadinanza era necessario essere residenti nel nostro paese da almeno dieci anni, un criterio che riduceva di molto l’accesso al beneficio per gli stranieri, anche per quelli che da tempo hanno deciso di trasferirsi stabilmente in Italia.
Questa modifica era stata suggerita dal comitato scientifico di valutazione sul Reddito di cittadinanza presieduto da Chiara Saraceno e verrà probabilmente accolta dall’esecutivo per evitare una bocciatura della misura da parte della Commissione europea.
Infine, la nuova misura dovrebbe rendere più semplice lavorare mentre si riceve il sussidio. In molti casi, infatti, i beneficiari si trovano in povertà perché non hanno un lavoro stabile o riescono a lavorare solo poche ore la settimana.
Finora, per ogni euro guadagnato mentre si prendeva il Reddito di cittadinanza, si perdevano 80 centesimi dall’importo del sussidio: un disincentivo a lavorare fortissimo.
Unica eccezione erano i redditi da lavoro stagionale o intermittente fino a 3 mila euro l’anno, che si potevano incassare senza perdere parte del sussidio.
Secondo le prime indiscrezioni, il Mia estenderà questa possibilità a tutti i tipi di lavoro dipendente, mantenendo la soglia di 3 mila euro.
Ridurre il costo non è una buona notizia
Il Reddito di cittadinanza non è una misura perfetta, anzi. È stato disegnato considerando il massimo beneficio elettorale che ne poteva derivare e tralasciando spesso l’efficacia della misura.
Pur con tutti i suoi difetti, però, rimane il principale strumento di contrasto alla povertà nel nostro paese. Ridurne il costo significa ridurre le risorse che decidiamo di dedicare alla popolazione più in difficoltà.
La riforma delineata dal governo presenta varie criticità, ma la principale è sicuramente la riduzione del costo della misura.
Se si pensa che il RdC vada rivisto è giusto modificarlo, ma utilizzando le stesse risorse in maniera più efficace per raggiungere più persone, non togliendo risorse ai molti che vivono in povertà solo per contrastare pochi truffatori.
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