Il dibattito sul blocco dei licenziamenti rivela la tendenza a rispondere alla crisi congelando i problemi, invece che risolvendoli
- Il governo sta lavorando al decreto agosto, il nuovo provvedimento di emergenza per gestire le conseguenze economiche della pandemia. Il punto più delicato è la proroga del blocco dei licenziamenti, almeno fino al 15 ottobre (o fino al termine del 2020).
- Questa misura, se passasse senza essere limitata alle aziende che fruiscono della cassa integrazione Covid, rischierebbe di ingessare ulteriormente il mercato del lavoro: il blocco dei licenziamenti tende a produrre anche blocchi di nuove assunzioni.
- Di fronte a tutti i problemi economici profondi, la risposta della politica sembra essere sempre la stessa: imbalsamare tutto. Gli oltre 200 miliardi di risorse aggiuntive previste dal Recovery fund dovrebbero servire a finanziare la transizione ma, con alta probabilità, verranno invece immolate alla conservazione dell’esistente.
Attendendo il vaccino o la cura per il Covid, è ormai chiaro che il destino dell’Italia sarà legato al modo in cui il paese uscirà dalla crisi sanitaria. Cioè se troverà modo per rigenerarsi, oppure proseguirà nella coazione a ripetere che da lustri genera una politica economica fallimentare, in termini di qualità della spesa pubblica e di capacità di adattarsi ai mutamenti del contesto globale. Perché il problema esistenziale italiano può essere letto proprio in chiave evoluzionistica: incapacità di adeguamento all’ecosistema economico globale.
La risposta caratteristica dell’Italia alle sfide esterne, non certo da oggi, tende ad essere l’irrigidimento e la cristallizzazione dell’esistente, che accentua il distacco da altri paesi riducendo ulteriormente la capacità di adattamento.
L’ultimo esempio, solo in ordine cronologico, di tale attitudine nazionale è l’ipotesi di proroga del blocco dei licenziamenti per ragioni economiche , introdotto a marzo, che ministra del Lavoro e sindacati vorrebbero sino a fine anno, e che dovrebbe essere introdotta col cosiddetto decreto agosto.
Questa misura, se passasse senza essere limitata alle aziende che fruiscono della cassa integrazione Covid, rischierebbe di ingessare ulteriormente il mercato del lavoro, perché blocchi ai licenziamenti tendono a produrre blocchi alle assunzioni.
La tendenza alla imbalsamazione si rintraccia anche nella spinta alla statalizzazione di aziende in dissesto da molto prima della pandemia, giustificata con ipotetici fallimenti di mercato (concetto che persino alcuni economisti finiscono col travisare, quando sono prestati alla politica), e col frusto giustificazionismo ideologico di contrasto al cosiddetto neoliberismo, che non si sa esattamente cosa sia in un paese dove oltre metà del Pil prodotto in un anno viene intermediato dallo Stato, ma è sempre utile per rispondere alla domanda di protezione proveniente da porzioni sempre più estese della società, colpite da quella stessa incapacità di rinnovare e adeguare l’economia al cambiamento esterno.
Il risultato è il drammatico decadimento di produzioni nazionali operanti in settori a basso valore aggiunto (Embraco, Whirlpool Napoli, per citare i casi di cronaca più eclatanti, ma anche l’eterna reindustrializzazione mancata di Termini Imerese), progressivamente aggredite e messe fuori mercato da quelle di paesi emergenti che stanno risalendo lungo la catena del valore aggiunto, e al contempo la risposta della politica, prodotta dell’elettorato, con soluzioni difensive di conservazione dell’esistente e conseguente distruzione di risorse fiscali, che limita ulteriormente i margini di cambiamento.
Questo letterale isterilimento di una comunità nazionale concorre a produrre crisi demografica, che a sua volta affossa un potenziale di crescita già limitato dalla imbalsamazione dell’esistente, ed innesca un processo di decrescita assai infelice.
Ogni processo di cambiamento passa attraverso una transizione, che produce sofferenze. La necessaria difesa degli sconfitti dal cambiamento è pressoché preclusa dal depauperamento di risorse fiscali dissipate nella difesa dell’esistente. In tal modo, il circolo vizioso si autoalimenta.
Si pensi, ad esempio, al sinora fallimentare capitolo delle politiche attive del lavoro nel nostro paese, quelle che si occupano di ricollocare il lavoratore che ha perso il posto soprattutto mediante formazione ed orientamento. Concetto peraltro giunto in forte ritardo sulla nostra scena domestica dopo i danni inflitti, negli anni Settanta e inizio Ottanta, da politiche di protezione dei posti di lavoro e non dei lavoratori che hanno segnato tutta la fase finale dell’intervento pubblico nel nostro paese, attraverso l’Iri (quello delle voragini nella siderurgia), a cui si sono affiancate Efim e Gepi, entità pubbliche che detenevano partecipazioni in un numero crescente di aziende decotte .
Proteggere i lavoratori anziché i i posti di lavoro era diventato una necessità, dopo l’entrata in vigore di stringenti vincoli europei sugli aiuti di Stato che hanno posto fine alla finzione di imprese ormai incapaci di reggere la concorrenza esterna causata dalla progressiva liberalizzazione dei mercati. Ma quando ci si trova ad operare in un contesto di desertificazione economica, causata dalla volontà di conservare l’esistente, le risorse fiscali disponibili a finanziare la transizione e la protezione sociale risultano inadeguate: la coperta è troppo corta.
La ricollocazione verso altri settori, per i lavoratori espulsi dal proprio, è ostacolata non solo dalle competenze richieste ma anche dalla penuria di opportunità. Per questi motivi (crisi fiscale conclamata e scarso dinamismo economico, per usare un eufemismo), la stagione della “formazione permanente” e delle politiche attive si è risolta in un fondale di cartone, slogan e convegni e vissuta con crescente rabbia ed ostilità dalle vittime del cambiamento, finite ad ingrossare la schiera degli elettori “conservatori” della loro condizione economica. Orientamento elettorale che ha prodotto esiti e programmi di politica economica centrati sull’immissione di risorse fiscali “dall’esterno”, sia attraverso deficit che con richieste di trasferimenti europei a fondo perduto.
Gli oltre 200 miliardi di risorse aggiuntive previste dal Recovery Fund, sia sovvenzioni che prestiti, dovrebbero servire a finanziare la transizione ma, con alta probabilità, verranno invece immolate alla conservazione dell’esistente, spesso goffamente camuffata da innovazione, ad esempio con sussidio di posti di lavoro non realmente produttivi. Senza contare la dispersione di risorse nella riproposizione di salvataggi di realtà aziendali su cui viene calato il mantello della rilevanza strategica nazionale. Non solo il salvataggio di Alitalia, dopo due anni di inconcludente amministrazione straordinaria ed assenza di piani strategici che non fossero solo desideri della politica ma anche Ilva, che da sola rischia di assorbire miliardi di risorse per una improbabile riconversione “ecologica”, quando è sempre più evidente che costerebbe assai meno bonificare, chiudere e ripartire da zero.
Siamo diventati eclettici, ora puntiamo a difendere il lavoratore ma anche il posto di lavoro, basta fare la mitologica formazione, di qualunque cosa si tratti, pagata dallo stato.
Ecco perché il post pandemia, per l’Italia, rischia di essere assai più critico del Covid medesimo.
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