- Siamo al paradosso: tutti i partiti stimano Mario Draghi, lo considerano fondamentale per il paese, ma nessun partito sembra intenzionato a candidarlo o votarlo per il Quirinale, al quale però tutti lo considerano idoneo.
- Vogliono tenerlo a palazzo Chigi, dicono, ma per fare cosa? Per usarlo nel tiro al bersaglio di una lunga campagna elettorale o per fargli fare le riforme che finora si sono ben guardati dal facilitare?
- Il tempo dei tatticismi sta per finire: se qualcuno vuole costruire una coalizione per Draghi, o per un Mattarella bis che conservi Draghi a palazzo Chigi, è il momento di agire.
Siamo al paradosso: tutti i partiti stimano Mario Draghi, lo considerano fondamentale per il paese, ma nessun partito sembra intenzionato a candidarlo o votarlo per il Quirinale, al quale però tutti lo considerano idoneo. Vogliono tenerlo a palazzo Chigi, dicono, ma per fare cosa? Per usarlo nel tiro al bersaglio di una lunga campagna elettorale o per fargli fare le riforme che finora si sono ben guardati dal facilitare? Pensioni rinviate, concessioni rinviate, catasto rinviato, fisco appena accennato, giustizia approvata a metà, l’inutile superbonus edilizio prorogato contro il parere del premier…
Senza più Draghi?
Qualunque presidente della Repubblica diverso da Draghi o Mattarella segnerebbe la fine dell’esperienza del governo Draghi. Draghi è stato imposto al sistema dei partiti da Mattarella in nome dell’emergenza e con un mandato preciso. Con un presidente diverso, eletto da una maggioranza molto differente da quella larga del governo, il premier dovrebbe come minimo verificare se ci sono ancora le condizioni per proseguire con il suo governo frutto dell’eccezionalità, soprattutto nell’anno di una lunga, infinita, campagna elettorale.
Potrebbe farlo con una formale remissione del mandato, oppure alla prima occasione in parlamento, con un voto di fiducia su un provvedimento che non metta tutti d’accordo.
L’uscita di Draghi da palazzo Chigi, con un presidente della Repubblica imposto da uno schieramento contro l’altro, darebbe all’esterno (e all’interno) il segnale di un’Italia che finisce sempre nel gorgo dell’instabilità politica.
Secondo punto da chiarire: la candidatura di Silvio Berlusconi al Quirinale è una scandalosa farsa. L’ex Cavaliere è un condannato in via definitiva, alla guida di un partito fondato insieme a un condannato per mafia (Marcello Dell’Utri), che ha conquistato palazzo Chigi grazie a conflitti di interessi e mercimoni parlamentari, defenestrato non dai tanto odiati magistrati ma dalla sua insipienza nel governare che nel 2011 ha portato il paese sull’orlo del default.
Eppure, Berlusconi tiene ancora in pugno il centrodestra e pretende di essere il candidato al Colle. Le possibilità di successo sono poche, ma non zero.
L’ex Cavaliere sembra aver rinunciato a essere il grande elettore di Draghi, che già nel 2005 e nel 2011 aveva portato alla Banca d’Italia e alla Bce, per inseguire le sue ambizioni personali.
Se arrivasse al Quirinale sarebbe un disastro, per la reputazione del paese, per la sua credibilità finanziaria, e anche per tutto il sistema dei partiti che avrebbe propiziato uno scenario comparabile con la rielezione di Donald Trump negli Stati Uniti nel 2024 dopo il tentato colpo di stato dell’anno scorso.
Il piano B
Un fallimento di Berlusconi porterebbe il centrodestra alla ricerca di piani B. Già una volta Berlusconi ha spinto Giuliano Amato al Quirinale, senza successo, nel 2015. Oggi Amato ha 83 anni, formalmente viene dal centrosinistra, anche se la sua scarsa attitudine alla lealtà politica lo ha reso trasversale: il Pd potrebbe farselo andar bene, visto che è stato premier di governi di centrosinistra e oggi è giudice della Corte costituzionale come Sergio Mattarella prima di lui.
Alle varie correnti del Pd Amato darebbe l’illusione di avere ancora “uno dei loro” al Quirinale, appoggiato anche dalle frange a sinistra del Pd, in particolare da Massimo D’Alema, e magari pure da Matteo Renzi.
Ma i Cinque stelle potrebbero mai votare l’uomo simbolo di tutte le caste e delle pensioni d’oro, celebre tra l’altro per la riforma che ha creato le fondazioni bancarie e per il prelievo forzoso dai conti correnti nel 1992? Amato al Quirinale con una maggioranza meno larga di quella dell’attuale governo spingerebbe Draghi all’uscita.
Tempo scaduto
Il Pd finora non è riuscito a esprimere una linea sul Quirinale, alcuni al suo interno caldeggiano il bis che Sergio Mattarella ha escluso, sapendo che è uno scenario sempre meno improbabile. Di certo Enrico Letta e i vertici del partito più europeista della maggioranza non hanno mai espresso una preferenza per Draghi al Quirinale, ma finora neanche per Mattarella bis.
La Lega di Matteo Salvini oscilla tra incomprensibili convulsioni, e finge di credere all’ipotesi Berlusconi. Giorgia Meloni, che pure è all’opposizione del governo, è stata praticamente l’unica a far capire che potrebbe votare Draghi.
Il tempo dei tatticismi sta per finire: se qualcuno vuole costruire una coalizione per Draghi, o per un Mattarella bis che conservi Draghi a palazzo Chigi fino al termine della legislatura, è il momento di agire. Altrimenti tutti saranno corresponsabili di un esito alternativo che si annuncia assai inquietante.
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