- Henry David Thoreau scriveva che “non si può uccidere il tempo senza ferire l’eternità”. E forse sta proprio qui, nel lampo di una poesia, il dilemma del Partito democratico.
- Il dilemma e anche la colpa.
- Poiché il Pd è stato l’illusione di dominare il tempo e si trova oggi a scontare la rivincita che il tempo si è preso su di lui.
Un partito è innanzitutto un’idea del tempo. Il suo, quello dei suoi padri, quello dei suoi figli. E le mille connessioni che li legano attraversando le stagioni. Lo dico riguardo alla crisi del Pd, a cui Stefano Feltri (e non solo lui) suggerisce di sciogliersi e a cui la nomenklatura propone invece un congresso al ralenti. Due modi diversi, molto diversi di vivere il proprio autunno.
Henry David Thoreau scriveva che “non si può uccidere il tempo senza ferire l’eternità”. E forse sta proprio qui, nel lampo di una poesia, il dilemma del Partito democratico. Il dilemma e anche la colpa. Poiché il Pd è stato l’illusione di dominare il tempo e si trova oggi a scontare la rivincita che il tempo si è preso su di lui. C’era infatti qualcosa di luciferino nella pretesa di convogliare nello stesso spazio politico tutto, o quasi tutto, il passato repubblicano.
Democristiani e azionisti, comunisti e socialisti, repubblicani e liberali. In più, i loro discendenti e imitatori. Il nobile partito della Costituzione e il meno nobile partito del più collaudato professionismo politico. Uno spazio sterminato, che si doveva estendere idealmente dalla polizia scelbiana alle bottiglie molotov dei cortei studenteschi.
Nell’illusione che di tutto quel passato si potessero trattenere solo le virtù, e che tutte quelle contraddittorie virtù non si mettessero poi l’una contro l’altra.
Doveva essere evidente che questa scommessa era contro la natura della politica. Che vive anche di ricordi, di memorie, di rimandi, di geni ereditati; e di tutto quello che ricordi e memorie e rimandi e geni lasciano poi in deposito ai figli più distratti e frettolosi.
Così oggi viene facile a chi ricorda il passato prossimo e anche quello remoto suggerire di rimettere le cose a posto e tornare a dividere il Pd in due o più di due. Facendo rinascere i ds e la margherita e magari anche i democristiani e i comunisti e gli altri ancora.
Tutte cose che s’accordano con la natura della politica, che è sempre -a dispetto della sua retorica- più storia che profezia.
Sciogliere non cura
E però temo che neppure il rompete le righe risolva di per sé il problema di cui il Pd non ha saputo essere la soluzione.
Poiché le culture che vi hanno dato vita a loro volta erano arrivate estenuate a quell’appuntamento. E si erano affrettate proprio perché intuivano che le risorse ereditate dal loro passato non avevano più un futuro dalla loro.
Dunque, a quel punto era forse il caso di scommettere sull’oblio dato che la memoria non dava più frutti. Era un circolo vizioso, insomma. Anche quello di prima.
Quello che sto cercando di dire è che anche l’idea di uno scioglimento toppo affannoso rischia paradossalmente di infondere nuova forza all’equivoco di cui il Pd è stato figlio. E cioè che si possa improvvisare con un colpo di fantasia tutto quello che la noiosa, faticosa, rigorosa elaborazione del passato non concede più ai suoi eredi.
Una resa senza condizioni, lascerebbe infatti tutti ancora lì, prigionieri degli errori che non si sono saputi ripensare, né tantomeno correggere.
Se si può azzardare un consiglio, da fuori e da lontano (ma non troppo), viene da dire al Pd che sarebbe tempo di mettere in scena la vera rappresentazione che si è mancato di attrezzare in questi anni. E cioè il confronto tra chi crede che la politica sia la rincorsa della novità e chi crede che sia la custodia della memoria.
Novità pur prudenti, s’intende. E memorie rivisitate senza troppo zelo, anche loro. In una parola, rapporti con il tempo, che possono volta a volta nutrirsi di ubbidienza o invece gonfiarsi di ribellione.
Questo esercizio, tralasciato negli anni passati, avrebbe consentito di non perdersi nel labirinto del populismo, laddove il Pd si è illuso di padroneggiarlo facendosene servitore e di assimilarlo a dosi non troppo massicce finendo invece per farsene dilaniare.
Così che alla fine il “contismo” dopo aver cercato di indossare improbabili panni neodemocristiani si affaccia ora alle porte del Nazareno indossando gli stivaloni dell’ortodossia comunista d’antan. Senza che gli si risponda né nel modo rude che si conviene alla verità storica né nel modo abile che si addice all’interesse politico.
Rimuovere il fardello
Il Pd non reggerà ancora a lungo il peso della difficoltà che attraversa e degli equivoci da cui è nato (colpa diffusa, di cui non posso neppure io dirmi innocente). Ma il modo in cui si toglierà dalle spalle questo fardello farà una certa differenza.
Se il rito si consumerà mestamente, tra equivoci e ipocrisie, sarà un’altra occasione perduta. Se invece si aprirà una discussione autentica, figlia di una difficoltà insuperata ma anche di una passione politica non rassegnata, allora sì lo scioglimento potrà forse avere un senso.
Sciogliersi così, senza essersi misurati con se stessi, e con i propri due passati – quello prossimo e quello remoto - non sembra una grande trovata.
Semmai, si dovrebbero chiudere i battenti solo dopo che ognuno abbia fatto i conti, fino in fondo, con il dilemma mai risolto del primo Pd. E cioè, se si trattava di un inizio oppure di una continuazione (e di quale continuazione, nel caso).
E se, più in generale, il demone della politica ci chieda il sacrificio della troppa nostalgia oppure quello della troppa frenesia.
Se non si farà questa fatica, tra qualche anno si rischia di rimpiangere il Pd che sta per archiviare se stesso.
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