- La discussione nel Pd si è incentrata sulla subalternità o meno del Manifesto al paradigma neoliberale. Sul punto, ho una opinione un po’ diversa.
- Certo, esso fu stilato in una temperie politico-culturale lontana segnata da una lettura generosa se non ingenuamente ottimistica della globalizzazione. Ma, se lo si legge con attenzione, il Manifesto come tale non è così sbilanciato.
- Lo furono semmai la cultura e la prassi del Pd negli anni a seguire.
Caro direttore, avendo a suo tempo, nel 2007, partecipato alla stesura del Manifesto dei valori del Pd, le chiedo cortese ospitalità per esprimere un’opinione sulla vivace discussione che si è aperta in queste ore su di esso nel comitato degli 87 cui il Pd ha affidato il compito di rimettervi mano.
Quel comitato sembra anche me sconti dei limiti: un po’ pletorico e contraddittoriamente composto da alcune (poche) personalità esterne al Pd persino non sue elettrici e, per converso, in larga maggioranza spartito tra le attuali correnti. Troppo e troppo poco in termini di innovazione e di apertura.
Osservo tuttavia che la sua costituzione, come da tradizione Pd, è stata deliberata alla unanimità. Già qui affiora una singolarità. Non la sola.
Come abbiamo inteso, la discussione, prima ancora che sul merito, si è accesa sul metodo e sui limiti - ritocchi, aggiornamento, riscrittura? - nella revisione di un documento fondativo del partito che l’Assemblea nazionale Pd (l’organo più largo e rappresentativo), a fine mandato, sarà chiamata ad approvare con le eventuali varianti.
Soltanto politica
Obiezioni che assimilano il Manifesto dei valori alla Costituzione del partito. In nome del principio della rigidità costituzionale.
Un po’ forzando perché il Manifesto dei valori è pur sempre un documento politico non la “legge fondamentale”. Lo è di più semmai lo statuto.
E tuttavia l’obiezione formale-metodologica non è peregrina. Anche se, a loro volta, gli “obiettori” devono contestualizzare la suddetta anomalia.
Alludo alla portata “non ordinaria” della sconfitta elettorale e della crisi politica nella quale essa si iscrive, che conduce a parlare di rifondazione, costituente, nuovo Pd, Pd che vada oltre sé stesso.
Una “terra di mezzo” che rende ragione di certe singolarità. E che suggerisce l’epilogo e la previsione ragionevole prospettati da Daniela Preziosi in calce al suo articolo sul tema, ovvero che il varo della versione conclusiva del Manifesto con le proposte emendative sia affidato infine alla nuova Assemblea del Pd a valle del congresso. Certo più legittimata.
La globalizzazione
Circa il merito, la discussione si è incentrata sulla subalternità o meno del Manifesto al paradigma neoliberale. Sul punto, ho una opinione un po’ diversa.
Certo, esso fu stilato in una temperie politico-culturale lontana segnata da una lettura diciamo così generosa se non ingenuamente ottimistica della globalizzazione. Ma, se lo si legge con attenzione, il Manifesto come tale non è così sbilanciato.
Lo furono semmai la cultura e la prassi del Pd negli anni a seguire. A cominciare dall’esordio di Walter Veltroni al Lingotto nel 2007 acuito nella successiva stagione renziana.
Il Manifesto semmai scontava un certo volonteroso equilibrismo (il celebre “ma anche…”), che tuttavia anch’esso si spiega: si trattava di essere il più possibile inclusivi di sensibilità e culture assai diverse.
Basti notare che il gruppo di lavoro che lo redasse era presieduto da Alfredo Reichlin e che vi partecipavano Piergiorgio Odifreddi e Paola Binetti. Ma, presto, affiorarono dissensi.
Penso allo stesso Reichlin che fu costretto più volte a precisare e correggere il senso da lui attribuito alla formula gramsciana “funzione nazionale” del partito da taluni fraintesa come Pd “partito della nazione”. Che poi slittò verso “partito pigliatutto”, partito di centro e persino …. non-partito-parte, ma ceto politico ministeriale sempre al governo.
In breve, è vero che il Pd deve sciogliere il nodo irrisolto della sua identità attraverso un vero confronto-scontro congressuale, ma deve trattarsi della identità politica, cioè di scelte chiare e riconoscibili su alcune, poche, ma concrete, cruciali questioni politiche e programmatiche.
Meglio dunque che quel confronto non sia centrato sul Manifesto dei valori sul quale oggi come ieri non sarebbe difficile, dosando le parole, siglare compromessi lessicali che non scioglierebbero i nodi politici controversi.
Lo ha auspicato lo stesso Michele Salvati, il più lucido ideologo del Pd prima versione, che personalmente non mi ha mai convinto. Ma che, sul punto, credo abbia ragione.
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