Il rischio per il nuovo Pd è di essere troppo poco “pragmatico” o di esserlo troppo? Molti autorevoli osservatori, spesso ospitati sul Corriere e sul Foglio, non hanno dubbi. Il pericolo per il Pd – e più in generale per il paese – è di imboccare con la nuova segreteria una strada che lo allontana dal “riformismo pragmatico” e lo porta dritto al “massimalismo” che tanto male ha fatto all’Italia. La preoccupazione non è infondata, come argomenta Angelo Panebianco (sul Corriere di mercoledì scorso). Tuttavia, andrebbero affrontati due nodi critici. Il primo riguarda i risultati conseguiti dal riformismo pragmatico del passato. Dal punto di vista del partito sono disastrosi: sei milioni di voti persi, dimezzato (fino a meno del 20 per cento) il voto delle classi popolari.

Non meglio vanno le cose dal punto di vista sistemico. L’incapacità del Pd di affrontare la sfida delle disuguaglianze crescenti è stato infatti il motore principale dell’astensionismo e del “grande esodo” dell’elettorato popolare verso nuove formazioni populiste e sovraniste, come del resto in altri paesi. Ma è questo riformismo del passato l’unico possibile per un partito di sinistra? E qui veniamo al secondo nodo critico. Molti osservatori preoccupati per i rischi del massimalismo aderiscono di fatto a una visione del riformismo che si potrebbe sintetizzare con una formula antica: extra ecclesiam nulla salus. L’ecclesia in questo caso è il pensiero unico sul riformismo.

Come se il solo tipo di riformismo possibile in una democrazia avanzata sia quello stile terza via, sperimentato con l’avvicinamento alle politiche economiche e sociali de-regolative del centrodestra, e subendo quindi l’influenza del neo-liberismo. Un riformismo che si distingue dalla destra soprattutto sulla dimensione culturale (diritti civili). Non a caso viene erroneamente identificata l’esperienza della socialdemocrazia (anche quella nordica e della Spd dopo Schröder) con questo riformismo. Ma non è così.

Tale esperienza, pur con tutti i suoi problemi e le sue peculiarità, mostra un riformismo diverso e più efficace, capace di rispondere alle sfide con una redistribuzione non assistenzialista, che non frena la crescita e sostiene l’economia di mercato, e così difende le stesse istituzioni democratiche sotto attacco. Una strada che si basa su un ambiente istituzionale lontano dalle sirene della democrazia maggioritaria. E che ha nella concertazione con le rappresentanze del lavoro e nella centralità del partito rispetto alla personalizzazione della leadership i suoi punti di forza.

Bene dunque ricordare i rischi del massimalismo, ma senza identificarli con il mero allontanamento dal vecchio riformismo che non ha portato bene al Pd e al paese. Un altro riformismo è possibile e sulla capacità di imboccare questa strada e non di riprendere la vecchia via valutato oggi il Pd.
 

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