- La prima e smisurata dissonanza cognitiva riguarda la natura di ciò che è accaduto e di cosa sta ancora accadendo.
- Quando si discute di cambiamento climatico, si incorre spesso nella difficoltà di imporre un livello di comprensione e di dialettica adeguato.
- È come se stessimo parlando di uno stato di rimozione collettiva.
La catastrofe dell’Emilia-Romagna contiene tante catastrofi insieme, e nonostante la sua spaventosa violenza di molte di queste catastrofi non c’è ancora coscienza.
La prima e smisurata dissonanza cognitiva riguarda la natura di ciò che è accaduto e di cosa sta ancora accadendo. La cosa tragica e spaventosa è come questo evento sia al tempo stesso la cosa più imprevedibile e la cosa più prevedibile con cui possiamo avere a che fare. Del resto questa potrebbe essere la definizione stessa di cambiamento climatico: un’apocalisse non solo vagamente annunciata ma descritta nei suoi aspetti più dettagliati attraverso una modellistica sempre più accurata.
Come mettere insieme queste due concezioni così polari (non ce lo saremmo mai potuto aspettare / ce l’aspettavamo esattamente così)? La prima risposta è arrenderci al più tremendo dei principi di realtà: la sicurezza che riaccadrà. Proprio mentre scopriamo i cadaveri portati via dalla corrente, mentre ci sono decine di migliaia di persone senza elettricità, che dormono in alloggi di fortuna, che scavano nel fango, proprio mentre piangiamo e chiediamo rispetto per il dolore, non possiamo distogliere l’attenzione da quest’allarme, e arrabbiarci.
Quando ascoltiamo per esempio le parole del governatore dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, ieri sera a Piazza Pulita. Una dichiarazione di stupidità e terrore che non è giustificabile nemmeno per il suo stato probabile di stanchezza e di shock: «Ricostruiremo tutto come prima» ha detto. «Abbiamo tornato a raggiungere (sic) i livelli di turismo prima della pandemia. Accoglieremo milioni di turisti come abbiamo sempre fatto».
Il livello della discussione
Quando si discute di cambiamento climatico, si incorre spesso nella difficoltà di imporre un livello di comprensione e di dialettica adeguato; anche in queste ore la discussione s’invita a rimandare il tempo delle polemiche come, per esempio, da mesi si stigmatizzano - ecoidioti, ecovandali – e si denunciano i ragazzi di Ultima generazione che protestano colorando monumenti di vernice lavabile o bloccando le strade.
Non si capisce, evidentemente, che la loro protesta non è diretta soltanto a un cambiamento di rotta sulle linee politiche in tutto il loro complesso a partire dalla coscienza del cambiamento climatico, ma a mostrare che quello che ci aspetta di qui a pochi anni, mesi, giorni, sarà talmente shoccante che occorre prepararsi ora a concepirlo e a contenere i danni. Il loro è un invito alla sopravvivenza, materiale e cognitiva, perché questa tragedia sta accadendo ora e riaccadrà, con una frequenza e un impatto sempre maggiori.
Tra le tante storie dolorose di questi giorni fanno impressione in modo particolare quelli di chi non voleva o non ha voluto lasciare la casa al momento dell’allarme o persino quando l’acqua ha iniziato a rovesciarsi in modo rovinoso. Questo è il punto chiave che dobbiamo prendere come riferimento nel racconto di questa catastrofe: il suo non volerne prenderne atto persino di fronte a un’evidenza appariscente. È come se stessimo parlando di uno stato di rimozione collettiva; quello che il nostro cervello mette in atto per difendersi nel momento in cui si trova a vivere un evento, che è tanto più sconvolgente quanto meno si è voluto immaginarlo.
Per esempio: nelle parole di queste ore di Enzo Lattuca, il sindaco di Cesena, una delle città più colpite dalla catastrofe, c’è l’espressione letterale di questo shock. Nel raccontare le frane appenniniche dovute dall’alluvione, Lattuca parla di collasso del territorio, e si domanda: che tipo di prevenzione si può fare per una cosa del genere?
Gestire l’apocalisse
Già, che tipo di prevenzione si può fare? Perché è evidente che non basta e non sarebbe bastata, per quanto utile, una migliore manutenzione degli invasi accanto ai fiumi per lasciarli esondare o un coordinamento più puntuale degli interventi di soccorso. La domanda che non può essere più inevasa è: cosa si fa quando arriva l’apocalisse?
La catastrofe di questi giorni è e dev’essere considerata un punto di non ritorno della politica dell’Emilia Romagna e di tutta l’Italia, perché è la rappresentazione plastica delle previsioni peggiori che sono state formulate in questi anni a partire dagli studi scientifici. Occorre che la classe politica studi e prenda decisioni irrimandabili, considerando una serie di incontrovertibili fatti.
Il primo è la trasformazione dell’area del Mediterraneo in una zona tropicale a clima monsonico. Piogge come quelle di questi giorni non sono generiche “bombe d’acqua” ma sono e saranno sempre meno rare. Uno studio del Cnr di luglio 2022 pubblicato su Atmosferic Resarch ha analizzato 32 anni di dati, dal 1990 al 2021, e 445 tornadi e ha mostrato come l’Italia sia uno hotspot per eventi di questo tipo.
Quando Bonaccini parla di precipitazioni mai viste, di un’intensità di cui non si ha memoria, non è difficile ricordargli come un’alluvione assolutamente simile sia avvenuta nel 2018 in Veneto o a febbraio di quest’anno a Siracusa, o il 15 settembre 2022, nelle Marche settentrionali, a non molta distanza dalle zone colpite in questo momento. Lì ci furono picchi di 90 millimetri all'ora fino a punte eccezionali di oltre 400 millimetri. Nella catastrofe emiliano-romagnola abbiamo avuto una media di 200 millimetri in 36 ore, con 500 millimetri in alcune zone.
Cementificazione esagerata
Il secondo è il dissesto idrogeologico. L’Emilia-Romagna è la prima regione in Italia per cementificazione in aree alluvionali: i dati dell’Ispra, ignorati anche nell’analisi di questo disastro dicono: più 78,6 ettari nel 2021 nelle aree ad elevata pericolosità idraulica; più 501,9 in quelle a media pericolosità.
Sono le cifre che con dolore ripete in questi giorni Paolo Pileri, ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano, autore di L’intelligenza del suolo (Altreconomia, 2022). La provincia di Ravenna – che in gran parte è la seconda dopo Roma per incremento di consumo di suolo: 69 ettari nell’ultimo monitoraggio 2020-2021. Secondo una proiezione dell’Enea del 2015, facilmente reperibile sul sito dell’Emilia Romagna, c’è una possibilità molto alta che tutto il ravvenate e il ferrarese finiscano sott’acqua entro il 2021.
L’emiliano (di Faenza) Pierluigi Randi, presidente dell'Ampro, associazione di meteorologi professionisti, in questi giorni è sottoposto a un fuoco di fila di interviste; ma è facile ritrovare in rete sue interviste degli ultimi dieci anni che dicono ogni volta la stessa cosa: «Avremo lunghi periodi di siccità intervallati da eventi temporaleschi o di pioggia violenta non frequenti ma davvero estremi».
Il terzo è proprio la sottovalutazione delle conseguenze del consumo di suolo e l’impermeabilizzazione del territorio. L’Emilia-Romagna una delle regioni italiane con più alto consumo di suolo, più di 600 ettari cementificati all’anno. In pochi anni la regione è arrivata ad avere una superficie impermeabile di quasi il 10 per cento. Sull’asfalto l’acqua non si infiltra e scorre veloce accumulandosi in quantità ed energia, provocando danni e vittime.
Come ricordato in questi giorni da Wu Ming in un lungo articolo su Comune-info in Emilia Romagna c’è stata una mobilitazione nel 2017 contro la legge regionale – Bonaccini era già presidente – che avrebbe dovuto limitare e eliminare il consumo di suolo. In realtà questa legge, scritta in modo subdolo e autocontradditorio, ha di fatto normato una deregolamentazione degli accordi per la costruzione lasciandola alla negoziazione tra privati. Quella mobilitazione non fu ascoltata dalla politica: la voce di queste cassandre si può almeno leggere nel libretto scaricabile online Consumo di luogo, edito da Pendragon.
Creare consapevolezza
Il quarto, il più grave, è la crisi epistemica: occorre che il mondo dell’informazione, dell’educazione, della ricerca trovino il prima possibile una forma di alleanza che sostenga quei politici che hanno la determinazione di fare scelte coraggiose, lungimiranti e probabilmente oggi impopolari. Ci sono degli ottimi libri divulgativi che raccontano e spiegano il cambiamento climatico italiano, all’interno ovviamente di un’alterazione globale: possiamo citare almeno L’altro mondo di Fabio Deotto e Terra bruciata di Stefano Liberti, che hanno pagine disperatamente profetiche e laceranti sul territorio della Pianura padana e della costa romagnola.
Piuttosto che chiudere in modo indiscriminato le scuole come sta avvenendo in questi giorni, occorre che questo genere di conoscenza sia anche al centro della didattica curricolare a scuola, per insegnare come prevenire le catastrofi, limitando per quanto possibile i danni, e per provare a interrogarsi su un futuro che per forza dovrà seguire modelli di sviluppo sociale e economico diversi da quelli attuali.
L’Emilia-Romagna è un caso paradigmatico. Anche di fronte a questo disastro, non viene messa in discussione da nessun politico anche progressista una cultura politica ipersviluppista, che continua a esaltare la motoristica in un mondo in cui dovremmo avere meno auto, che continua a esaltare la turistificazione di massa in un mondo in cui soffochiamo di overtourism, che continua a esaltare gli allevamenti intensivi in un mondo in cui dovremmo diminuire il consumo di carne.
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