- Dietro la discussione che si è aperta sul “reddito di cittadinanza” c’è un “non detto” che andrebbe esplicitato.
- La motivazione di fondo con cui molti giustificano il “reddito di ciitadinanza” è del tipo «tanto il lavoro non c’è e non ci sarà o quello che c’è è di tipo servile», con la quale, però, il “reddito di cittadinanza” viene a comportare una sorta di accettazione rassegnata della realtà così come.
- In quest’ottica, il reddito diventa una paradossale sanzione e legittimazione dello status quo per il quale si viene ad essere esentati dal rivendicare trasformazioni più profonde.
Dietro la discussione che si è aperta sul “reddito di cittadinanza” c’è un “non detto” che andrebbe esplicitato. Le espressioni come “giovani sul divano” o “fannulloni” possono essere efficaci nel suscitare un facile sdegno demagogico, ma concettualmente sono prive di rilevanza.
La retorica dei “fannulloni” si demistifica da sé, perché proprio le conseguenze della pandemia mostrano quanto siano necessari gli ammortizzatori sociali (come la cassa integrazione e l’indennità di disoccupazione), che aiutano le persone nelle fasi di sospensione o di perdita del lavoro, e gli strumenti monetari (come il reddito di inclusione) di contrasto alla povertà, di cui il nostro paese si è dotato tardi e non ancora adeguatamente.
Con la formula “reddito di cittadinanza” spesso si allude a qualcosa di altro e di più profondo. Nella definizione di “reddito di base” di Philippe Van Parijs la formula si riferisce a «un reddito versato da una comunità politica a tutti i suoi membri su base individuale senza controllo delle risorse né esigenze di contropartite». Questa formulazione pone problemi di costi rilevanti e insuperabili, a meno di non assorbire nel nuovo trasferimento tutti quelli esistenti, tra cui le prestazioni pensionistiche, e di azzerare la fornitura di servizi pubblici, compresa la sanità, dalla cui sospensione verrebbero tratte le risorse aggiuntive necessarie al finanziamento, cosa che non escludono sia i teorici di destra, come Milton Friedman, sia quelli di sinistra come Van Parijs.
I costi del “reddito di cittadinanza” nella sua formulazione letterale sono così rilevanti – per l’Italia si parla di un centinaio di miliardi di euro – che lo rendono irrealizzabile. Non varrebbe nemmeno la pena di parlarne, ma esso sottende decisive problematiche culturali – e perfino morali – delle quali, invece, vale la pena di parlare: il futuro del lavoro e la concezione del lavoro.
La motivazione di fondo con cui molti giustificano il “reddito di ciitadinanza” è del tipo «tanto il lavoro non c’è e non ci sarà o quello che c’è è di tipo servile», con la quale, però, il “reddito di cittadinanza” viene a comportare una sorta di accettazione rassegnata della realtà così come è, quindi una sorta di paradossale sanzione e legittimazione dello status quo per il quale si viene ad essere esentati dal rivendicare trasformazioni più profonde.
A tal proposito non è per niente rassicurante una delle “profezie” di Beppe Grillo: la previsione, e forse l’auspicio, della “società senza lavoro”, così come non lo è lo scherno con cui Guy Standing (altro teorico insigne del “reddito di cittadinanza”) tratta Beatrice Webb (considerata la madre dei “campi di lavoro” vagheggiati, secondo lui, dal socialismo fabiano) o William Beveridge, dileggiato come “santo patrono” del welfare state e della “piena occupazione”.
Un’alternativa è possibile
Al contrario, per me la priorità assoluta va data alla creazione di lavoro demolendo l’ostracismo che è caduto sull’obiettivo della “piena e buona occupazione”, nella acuta consapevolezza che la sua intrusività – vorrei dire la sua “rivoluzionarietà” – rispetto al funzionamento spontaneo del capitalismo è massima proprio quando il sistema economico non crea naturalmente occupazione e si predispone alla società senza lavoro. Lasciarle libero spazio equivarrebbe a non frapporre alcun argine alla catastrofe.
Vanno davvero riscoperte l’ispirazione radicale del New Deal di Franklin Delano Roosevelt e le straordinarie acquisizioni di John Maynard Keynes, Hyman Minsky, Atkinson intorno al “lavoro garantito e degno”, le quali suggeriscono, in condizioni eccezionalmente devastanti come quelle create dalla pandemia, che gli Stati non eccedano in trasferimenti monetari e in riduzioni fiscali e contributive (in grado di compensare ex post ma non di intervenire ex ante sulle strutture e di cambiarle profondamente) e, invece, esercitino funzioni di “employer of last resort”, datore di lavoro di ultima istanza, creando direttamente lavoro con progetti e investimenti appropriati. Non per nulla sono gli investimenti pubblici il baricentro di quella svolta storica che è il Next Generation Eu.
Quanto alla concezione del lavoro, essa ci fa risalire a una antica controversia: liberare il lavoro? o liberarci dal lavoro?, durante la quale si è giunti a intitolare interi libri Lavoro male comune.
La sinistra rischia di lasciare solo a soggetti religiosi – come Papa Francesco, il papa che contesta il dogma neoliberale del “primato del mercato” – di mostrare una persistente forte sensibilità al trinomio lavoro/dignità/persona, ribadendo con veemenza che il diritto al lavoro è primario, superiore alla stesso diritto di proprietà, e che il rapporto che ha per oggetto una prestazione di lavoro non tocca solo l’avere ma l’“essere” del lavoratore.
Eppure Marx, con Hegel, vedeva nel lavoro il processo attraverso il quale l’uomo non si limita a metabolizzare ma media anche simbolicamente il rapporto fra se stesso e la natura, cambia se stesso dandosi una funzione autotrasformativa, esplora sistematicamente dimensioni intellettuali di consapevolezza e di progettualità.
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