- L’ipotesi su cui invece ha lavorato Enrico Letta è quella di un “campo largo” di cui facciano parte anche le piccole formazioni di centro. I risultati di questa strategia non sono incoraggianti.
- La divaricazione di orientamenti, soprattutto sul piano economico-sociale, si è andata allargando sempre più al punto che sembra difficilmente componibile.
- La strategia del campo largo si confronta con un rischio, anzi un incubo, quello dell’Unione di Romano Prodi nel 2006: una coalizione così ampia e diversificata che può vincere nelle urne, ma non regge nell’azione di governo.
Il sistema partitico italiano continua ad essere frammentato. In questo non c’è nulla di anomalo o eccezionale. In Olanda, Belgio e Danimarca la frammentazione è quantomeno simile, e la stessa Germania ha ormai sei partiti stabilmente presenti nel suo parlamento.
Proprio il caso tedesco può aiutare a mettere in prospettiva la situazione italiana. In quel paese i cristiano-democratici e i socialdemocratici, che si contendevano la connotazione di “Volkspartei”, cioè di grande partito popolare, sono ora derubricati a partiti medio-grandi, che non superano un quarto dei consensi.
Anche in Italia non ci sono più partiti dominanti. Crollati Pd e Pdl dai fasti di un quindicennio fa, ed esauritasi la fiammata grillina, il nostro sistema vive in uno stato di equilibrio – precario – tra quattro formazioni che più o meno si equivalgono: FdI, Lega, M5s e Pd. Rimane fuori da questa quadriglia un altro 20 per cento di elettorato che fluttua tra piccole formazioni di cui una sola, Forza Italia, ha qualche consistenza. Il futuro governo dipenderà da quale coalizione si formerà.
La destra crede in una sua autosufficienza: i rapporti con le altre formazioni centriste sono, per ora, occasionali (o, almeno, così appare).
L’ipotesi su cui invece ha lavorato Enrico Letta è quella di un “campo largo” di cui facciano parte anche le piccole formazioni di centro. I risultati di questa strategia non sono incoraggianti.
L’unica sintonia si è avuta nell’elezione di Letta nel collegio di Siena dove le bizze degli esponenti locali di Italia viva, subito insorti contro la candidatura del segretario Pd, sono state tacitate dall’intervento diretto di Matteo Renzi, preoccupato del danno politico e d’immagine che gli sarebbe venuto da un intervento a gamba tesa contro Letta dopo i noti trascorsi («Enrico stai sereno…») .
Per il resto, la divaricazione di orientamenti, soprattutto sul piano economico-sociale, si è andata allargando sempre più al punto che sembra difficilmente componibile.
Il fuoco di sbarramento di Carlo Calenda e Renzi contro la candidatura di Giuseppe Conte alle suppletive di Roma, patrocinata dal Pd, è l’ultimo episodio di una serie di scelte divergenti.
Tra queste, spicca l’opposizione, condotta da Italia viva insieme alla destra, a un modestissimo correttivo del prelievo fiscale per i redditi superiore ai 75.000 euro.
Un episodio, tra i tanti, che dimostra l’opzione neoliberista di quel partito, in radicale contrasto rispetto all’attenzione del Pd verso la giustizia sociale e la difesa dei ceti sottoprivilegiati (in linea con il programma del nuovo cancelliere tedesco, Olaf Scholz).
A questo punto, la strategia del campo largo si confronta con un rischio, anzi un incubo, quello dell’Unione di Romano Prodi nel 2006: una coalizione così ampia e diversificata che può vincere nelle urne, ma non regge nell’azione di governo.
Perché senza una visione politico-ideale comune il potere di veto dei piccoli partiti e la loro pulsione alla visibilità per sopravvivere mina fatalmente le sorti di una coalizione.
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