Chico Forti è tornato in Italia. È una buona notizia. Deve continuare a scontare la pena qui da noi: è questo l’accordo preso tra le autorità dei due paesi. Qualche anno fa ero stato a trovarlo in carcere a Miami. Molti ministri e deputati di ogni colore si sono adoperati per negoziare la sua liberazione. L’attuale esecutivo presieduto da Giorgia Meloni è riuscito a concludere positivamente una vicenda che durava da parecchio tempo. Chico non si è mai lamentato, non ha protestato, non ha inveito contro le autorità americane o italiane: è solo rimasto fermo sulle sue posizioni di innocenza, con calma e grande determinazione. Ha compreso subito che quando sei nelle mani di un altro governo devi lasciar fare alle autorità diplomatiche del tuo paese.

Le nostre – come ha ripetuto il ministro degli Esteri Antonio Tajani – sono abituate a non abbandonare nessuno. Sulla copertina dei passaporti di molti paesi, anche Ue, sta stampata una dicitura: “Questo passaporto non dà diritto ad alcuna assistenza consolare obbligatoria”. Da noi è diverso. Ci sono oltre 2.400 casi di italiani bloccati all’estero, non tutti in carcere e ognuno con una storia diversa. Inoltre ogni anno le nostre autorità diplomatiche e consolari operano circa 10mila interventi per rimpatri, evacuazioni mediche, incidenti vari.

Certo possono accadere fatti molto più gravi e orrendi come la tortura e l’uccisione di Giulio Regeni, un dramma che ha inciso sulle relazioni con l’Egitto e che rende difficile la cooperazione giudiziaria. Fortunatamente sono casi rari: il più delle volte si tratta di eventi meno dolorosi, anche se va detto che pure nel caso di Giulio dobbiamo molto all’ambasciatore dell’epoca al Cairo, Maurizio Massari (oggi a New York), che ebbe il coraggio di denunciare immediatamente e non permettere l’insabbiamento iniziale (ciò che forse ha contribuito a far ritrovare il corpo).

Comunque ci sono molti casi di liberazioni e rimpatri dei quali non si fa pubblicità (o pochissima): l’impegno dello Stato (del quale sono testimone) è permanente e non è senza rischi (ricordate le bombe alle nostre sedi al Cairo o ad Atene?). Visto che Chico verrà trasferito in un carcere italiano, ciò che invece davvero dovrebbe attirare tutta la nostra attenzione e quella del grande pubblico è lo stato delle nostre prigioni.

È giusto pretendere che gli italiani non restino intrappolati nelle carceri o nei labirinti giudiziari altrui, ma è ancor più importante badare ai propri. Il nostro sistema carcerario soffre dei soliti annosi disagi: sovraffollamento, vetustà delle strutture, carenza di acqua e servizi, caldo d’estate e freddo d’inverno, poca possibilità di fare attività o di lavorare, cattiva sanità, poco personale male retribuito e ancor meno motivato.

Chico in questi ultimi anni stava in una prigione (fuori Miami) di “minima sicurezza” dove poteva avere un cane, fare dei corsi agli altri detenuti, ricevere tutte le visite e altre facilità. Nel tempo si era fatto ben volere da tutti, guardie comprese: cosa non scontata nell’universo carcerario statunitense.

Tutto questo si deve alla sua capacità empatica, alla sua intelligenza umana e alla sua calma: talenti che già gli si riconoscevano nella vita precedente. A Trento in molti se lo ricordano così. Ora giungerà in un altro universo carcerario in cui tante possibilità non ci sono. Accanto alla sua storia che sta – finalmente! – andando nel verso giusto, vorrei cogliere l’occasione per ricordare le tante storie di prigionieri nelle nostre carceri finite male. Soprattutto i tantissimi suicidi, quasi 40 dall’inizio di quest’anno.

Si muore troppo nelle nostre prigioni, per un nonnulla e nella grande disattenzione. Marco Bracconi sul Venerdì ha fatto una lista dei suicidi, una speciale Spoon River nazionale, con i nomi, le provenienze e le età. Ci sono tante piccole drammatiche storie di disagio fisico e mentale; stranieri e italiani insieme, molti accusati di femminicidio o abusi.

Numerosi hanno provato a uccidersi più volte fino a riuscirci. Dietro a ogni nome si intravvede un vuoto di solitudine e abbandono. Le età sono molto diverse: dai vent’anni ai settanta. Alcune storie sono senza nome, anonime. La buona notizia di Chico, assieme a tante altre, può spingerci a guardare al nostro sistema carcerario con occhi diversi. Un paese diventa civile se si prende cura degli ultimi: dei poveri, dei fragili e anche dei carcerati. In Italia non si può, non si deve più morire così.

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