Il green deal potrebbe essere stato il più grande boomerang politico degli ultimi anni per la classe politica europea. Nel suo nome le istituzioni introducono regole e obblighi per le aziende agricole, la produttività dei terreni si riduce. Non è benzina politica per i partiti della maggioranza a Bruxelles, ma carburante per i partiti populisti e della destra radicale
La protesta degli agricoltori dimostra con ottime probabilità che il green deal potrebbe essere stato il più grande boomerang politico degli ultimi anni per la classe politica europea. La lotta al cambiamento climatico, che però si estende su scala planetaria, perseguita in maniera decisa e ortodossa da un solo continente dimostra che il confine tra idealismo ed ideologia è molto sottile e che quando si sconfina nella seconda la perdita di distanza dalla realtà può farsi concreta e dolorosa.
Prendiamo proprio il caso degli agricoltori. Da decenni la politica agricola europea, insieme agli Stati nazionali, sussidia aziende agricole che sono dipendenti dagli aiuti pubblici. Senza di essi molte, soprattutto quelle più piccole, chiuderebbero per insostenibilità economica. L’Ue ha pertanto contribuito a creare un settore produttivo sussidio-dipendente senza riuscire nemmeno a raggiungere l’autosufficienza agricola per il continente.
Regole penalizzanti
Oggi, in nome dell’ambientalismo, le istituzioni europee introducono nuove regole e obblighi per le aziende agricole che riducono la produttività dei terreni in nome della tutela ambientale, puntando sull’agricoltura biologica e il riposo obbligato di una porzione dei terreni, che provocano le violente proteste di questi giorni. La classe degli agricoltori, già molto penalizzata dalla globalizzazione, sconta negativamente le nuove regole ambientali.
Sul piano politico questa non è benzina per chi ha disegnato tali politiche, i partiti della maggioranza che governa Bruxelles, ma carburante per i partiti populisti e della destra radicale. Come già accaduto in passato, i piccoli proprietari e produttori vengono sempre più spinti agli estremi da una classe politica che ha scelto l’utopia prima del buon senso, la retorica della catastrofe invece di quella del pragmatismo, l’approccio del riformismo radicale piuttosto che quello graduale e concertato.
Nemmeno il protezionismo accoppiato all’ambientalismo può porre rimedio. L’Ue ha previsto un sistema di dazi per evitare che le produzioni europee si spostino altrove e i prodotti poi vengano importati con perdita di posti di lavoro ma senza riduzione di emissioni. Si tratta della combinazione tra la tassa sulle emissioni (Ets) e di tassa alla frontiere (Cbam) sui prodotti che vengono da Paesi dove l’inquinamento è meno tassato.
Perdita di competitività
Nel 2026 il sistema sarà a pieno regime, l’agricoltura ne è esclusa ma molti altri settori industriali ne soffriranno. Le aziende si trovano a pagare l’energia, oltre che il lavoro e le materie prime, più dei loro competitor negli altri continenti e devono anche mantenere forzosamente la produzione in Europa per evitare dazi.
Ciò significa che molte perderanno competitività nel medio-lungo periodo, e che i consumatori pagheranno di più i prodotti importati, per ossequiare regole che solo la classe politico-burocratica europea nel mondo ha inventato. In questo disegno autolesionista sviluppato dai policy-markers rientra anche l’ossessione per la mobilità elettrica di un continente che non dispone delle materie prime necessarie e ospita sul suo suolo giga-factory per la produzione di batterie ad oggi soltanto americane.
Il risultato è che i produttori europei di automobili ricattano oramai apertamente i governi per avere sussidi pubblici al fine di produrre veicoli elettrici in Europa e non altrove. Automobili full-electric che a loro volta faticano molto sul mercato europeo e la cui appetibilità commerciale dipende anch’essa dagli incentivi pubblici previsti dai governi.
La realtà è che la tecnologia dei veicoli elettrici non è matura per servire tutta la popolazione, non lo è sul piano infrastrutturale, non su quello dei costi e nemmeno su quello operativo. Per questo motivo decarbonizzare senza alternative efficienti rischia soltanto di alzare l’inflazione energetica e aumentare lo scontento verso le istituzioni europee.
Su queste colonne Giorgia Sureghetti ha rimandato al concetto di “petronostalgia”, tuttavia la nostalgia presuppone un passato consolidato mentre per la stragrande maggioranza della popolazione gli idrocarburi sono il presente. Per questo non convince una visione manichea tra la buona pedagogia degli ecologisti contro il popolo insensibile e reazionario.
Certo non ci si può aspettare entusiasmo popolare verso il cambiamento quando si impongono tecnologie oggi meno funzionali, più costose o regole che deprezzano le proprietà e i redditi. Ciò non significa rinunciare all’obiettivo del mix energetico nei prossimi decenni, ma farlo senza pretese catartiche o utopiche che sfociano poi in modelli calati dall’alto sulla realtà e in un profluvio di regolazione controproducente. Anche e soprattutto perché il fucile scarico dell’ambientalismo rischia di generare per la classe politica europea un rinculo molto pericoloso.
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