Sarà ingenuo chiedersi perché noi di tali temi, assillanti per la sicurezza europea, non parliamo a 100 giorni dal voto sul parlamento europeo, cui seguirà la nomina della Commissione e del presidente del Consiglio europeo; su questo vanno incalzati partiti e candidati, snidando i pacifisti finti, veri amici dei nemici della Ue
Il processo d'integrazione europeo, nato per non rivivere la trentennale guerra civile europea affronta due temibili ostacoli: l'aggressione russa a Kiev e il possibile arrivo alla Casa Bianca di un altro nemico della democrazia. La Ue, per non fare il bocconcino prelibato nel sandwich, deve reagire.
Ursula von der Leyen, presidente della Commissione troppo ansiosa di conferma, vuol finanziare l'industria militare con fondi della Ue, e chiede agli Stati di delegarle responsabilità strategiche. Il Sole 24 Ore (25 Febbraio) pubblica dettagli del piano, partendo da un dato: il 78% degli acquisti di prodotti e sistemi va a Paesi non Ue, per due terzi agli Usa. L'uscita della presidente ha sorpreso gli Stati. Puntuale ecco la controffensiva, in testa Berlino e l'industria militare; il piano duplicherebbe le strutture, sviando verso la lentissima Ue fondi oggi gestiti dagli Stati, e come la mettiamo con la Nato? Coltivare l'unione sempre più stretta su tali temi è urgente, ma attenzione agli ostacoli. Come finanziare il piano, quali spese militari nazionali, quali altre spese tagliare, quanto verrà da risorse proprie (tasse) Ue? Sono temi di grande spessore.
L'industria sfornerà armi che speriamo di non usare, ma chi dovrà deciderlo, magari con grande urgenza? Le armi sono braccia, senza identificare la testa il tutto non ha senso. Ancor meno sensato sarebbe continuare ognuno con la sua industria, i suoi sistemi d'arma, i suoi processi politici: nella Ue ci sono 29 tipi di fregate, l'esempio non è scelto a caso, non si tratta solo di navi. Abbiamo da tempo embrioni d'integrazione in materia; la Ue ha un vice presidente della Commissione, Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, un fondo europeo per la difesa, la European Defense Agency, una Cooperazione strutturata permanente (Pesco). Sono sigle o poco più, nessuna opera davvero nelle crisi, non potendo passare dalle dichiarazioni ai fatti conseguenti.
La Nato alberga solo progetti di cooperazione europea complementari ai propri. Con la nota urbanità Trump chiede ai suoi membri – che non sono morosi, la Nato non essendo una tassa – di aumentare le spese. Sarà ingenuo chiedersi perché noi di tali temi, assillanti per la sicurezza europea, non parliamo a 100 giorni dal voto sul parlamento europeo, cui seguirà la nomina della Commissione e del presidente del Consiglio europeo; su questo vanno incalzati partiti e candidati, snidando i pacifisti finti, veri amici dei nemici della Ue. Non sorprende che il moderatismo fiancheggiante il governo additi le differenze fra le opposizioni, ma purtroppo decidere tocca a inveterati nazionalisti; che faranno?
Dobbiamo prendere in mano il nostro destino disse Angela Merkel nel 2017, regnante quel Trump che può tornare e comunque cavalca il montante isolazionismo Usa. Ora conta di più il Pacifico, anche rieletto Biden potrebbe essere l'ultimo presidente atlantista, scrive The Economist. È imperativo darci istituzioni e processi rapidi, efficaci, unificare progetti e sistemi. Parrà impossibile ma non provarci è follia, economica prima ancora che politica. Stiamo spendendo forse poco, certo malissimo.
È meglio partire ora che magari sotto l'incalzare di eventi drammatici. Dopo le elezioni, la Ue nel nuovo assetto sarà a Rodi, per non rischiare di affondare dovrà saltare. Vedremo che farà la premier Giorgia Meloni; il suo recente atlantismo è un tocco di cipria che non cela l'estraneità sua e del suoi vertici a tutta la storia della Ue.
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