- Tempo fa su queste colonne avevo scritto che quella di Tim mi sembrava una stucchevole telenovela, ma che saremmo arrivati presto alla puntata finale, perché la scissione della rete era ormai diventata inevitabile per la sopravvivenza della società. Mi sbagliavo.
- La scissione della rete di Tim, prodromo di una fusione con Open Fiber per creare una rete unica a controllo pubblico sembra nell’interesse di tutti: della nostra classe politica, perché soddisfa le sue insaziabili pulsioni dirigiste.
- Ma, più di tutti, è nell’interesse di Tim che in questo modo, oltre alla minor concorrenza come le altre telco, può finalmente risolvere il problema del debito e dei dipendenti in eccesso.
Fra cambi di governance e di piani strategici, da 20 anni sento parlare della scissione della rete di Tim (ex Telecom Italia) e di come abbatterne l’eccessivo debito. Intanto, il titolo in Borsa ha continuato ad affondare, dissipando nel periodo quasi il 90 per cento del suo valore.
Tempo fa su queste colonne avevo scritto che quella di Tim mi sembrava una stucchevole telenovela, ma che saremmo arrivati presto alla puntata finale, perché la scissione della rete era ormai diventata inevitabile per la sopravvivenza della società. Mi sbagliavo.
La scissione della rete di Tim, prodromo di una fusione con Open Fiber per creare una rete unica a controllo pubblico sembra nell’interesse di tutti: della nostra classe politica, perché soddisfa le sue insaziabili pulsioni dirigiste; della Cassa Depositi e Prestiti che in questo modo garantirebbe un futuro alla controllata Open Fiber che, da sola, avrebbe difficoltà a diventare redditizia, e troverebbe una via di uscita al 10 per cento in Tim; del governo che in questo modo paga i 3,7 miliardi già stanziati dal Pnrr per l’allacciamento alla fibra di 666 numeri civici (e i nuovi utenti che questo genererà) a due società, Tim e Open Fiber, di cui è già azionista e che con la fusione sarebbe a controllo pubblico; di tutte le telco e dei fornitori di banda larga, che possono sperare in un aumento dei margini non dovendo più farsi concorrenza nel dare accesso alla rete. Ma, più di tutti, è nell’interesse di Tim che in questo modo, oltre alla minor concorrenza come le altre telco, può finalmente risolvere il problema del debito e dei dipendenti in eccesso che potrebbero essere conferiti nella società della rete la quale, in quanto monopolista regolato, può sostenere un indebitamento maggiore né deve ricercare efficienze di costi.
Effetto Kkr
Il resto di Tim, la distribuzione (telefonia e internet), Brasile e servizi (ServCo), avrebbero destini separati partecipando all’inevitabile processo di aggregazioni e fusioni che caratterizzeranno il settore: come è già successo con il conferimento delle torri di trasmissione insieme a quelle di Vodafone in InWit, o come l’offerta di Cvc per la costituenda ServCo e quella di Iliad per le attività di Vodafone in Italia, chiaramente dimostrano.
Kkr con la sua offerta per tutta Tim, ha solo reso palese che quella descritta qui sopra è l’unica strada possibile. E offrendo, seppur in modo non vincolante, un prezzo superiore del 45 per cento al corso medio dell’azione in quel momento, ha anche segnalato il modo per arrestare il declino del titolo in Borsa. C’è però la grossa incognita di Vivendi, il primo socio di Tim con quasi il 24 per cento: nessuno può lanciare un’Opa, o fare qualsiasi altra operazione, senza l’accordo di Vivendi.
Penso che l’offerta non vincolante di KKR fosse un modo per aprire una trattativa. Ma invece di andare a verificare le reali intenzioni del fondo americano, Vivendi ha licenziato l’amministratore delegato, Luigi Gubitosi, per chiedere a quello nuovo, Pietro Labriola, di stilare rapidamente un nuovo piano che inevitabilmente ricalca quello di Kkr; che così aspetta da cinque mesi la risposta alla sua richiesta di una due diligence.
Cosa vuole davvero Vivendi?
Ragionevole presumere che Vivendi ritenga di essere in grado di fare da sola la stessa operazione prospettata dal fondo, per incassare lei il capital gain implicito nell’offerta di Kkr (se offre 0,50 euro per azione è perché ritiene di valorizzare molto di più il suo l’investimento, in linea con i rendimenti del private equity).
Qui cala la nebbia perché se veramente Vivendi e i suoi advisor ritengono che, con il piano di Labriola, Tim valga considerevolmente più dell’offerta di Kkr - tra 1 e 1,30 euro per azione secondo le indiscrezioni di stampa - non si capisce perché proprio in questi giorni abbia svalutato la sua partecipazione a 0,657 euro. Né si capisce come Vivendi possa riuscire a fare adesso una ristrutturazione che non è stata capace di fare nei sei anni in cui è stata al comando, e cambiando da allora ben cinque amministratori delegati (Patuano, Cattaneo, Genish, Gubitosi, Labriola) segno di una governance a dir poco lacunosa. Comprensibile lo scetticismo del mercato: nonostante il piano Labriola il titolo rimane ben al di sotto dei 0,50 euro proposti da KKR (0,31 la media degli ulTimi 7 giorni).
Il silenzio di Cdp
In tutto questo Cassa Depositi e Prestiti, col 10 per cento, rimane in rigoroso silenzio, forse perché in conflitto di interessi, in quanto azionista di controllo della promessa sposa Open Fiber, a sua volta controllata dallo Stato che dovrà anche regolare la società della rete unica, oltre ad allocare i 6,7 miliardi previsti dal Pnrr per la digitalizzazione.
In pilatesco silenzio rimangono anche gli amministratori indipendenti, che dovrebbero tutelare il 65 per cento del capitale in mano ad azionisti privati, preferendo nominare advisor invece di prendere posizione esplicitamente su come arrestare il declino di un titolo che, per ora, gode ancora della rete di protezione dei 0,50 euro di Kkr.
Quello che non traspare con chiarezza è che il valore del titolo non dipende dalle differenze tra i piani di Kkr e di Labriola: sono sostanzialmente la stessa cosa; e sarebbe lo stesso ci fosse un terzo piano, perché non ci sono grosse alternative.
La differenza di valore tra i piani sta nella loro implementazione. Kkr vuole fare scissione e ristrutturazione dopo aver ritirato Tim dalla Borsa perché i vincoli alla governance che la regolamentazione impone alle società quotate, nonché la necessità di riconciliare i molteplici e confliggenti interessi delle loro compagini azionarie, rende le complesse operazioni di ristrutturazione e riorganizzazione enormemente difficili rimanendo in Borsa.
È un chiaro trend in tutti mercati azionari del mondo e spiega il ruolo predominante che il private equity sta acquisendo nel mercato dei capitali.
Ritengo quindi velleitario pretendere di ottenere gli stessi risultati mantenendo Tim quotata, con un azionista di riferimento, Vivendi, capace di cambiare 5 amministratori in 6 anni senza arrestare il declino, e con lo Stato come socio che usa le sue partecipazioni per fare politica dei redditi, rendendo così oltremodo difficile il taglio dei costi.
Non siamo quindi alla puntata finale della telenovela. Anzi, sta per cominciare una nuova stagione. Temo che neanche questa sarà l’ultima.
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