- La linea di Zaia, come e più di quella di tutti gli altri componenti dell’ala “governista” della Lega, non ha mai mostrato ondeggiamenti sostanziali.
- Ne sono prova le critiche alle «battaglie di retroguardia sulle coppie gay e il fine vita» o quelle della scorsa estate contro le «gabbie ideologiche» che impedirebbero al suo partito di ampliare i consensi.
- Da sempre, del populismo connaturato al Dna leghista, il leader veneto esprime il volto più autenticamente antipolitico.
A chi è stato presente, sia pure come semplice uditore a scopo di ricerca, al congresso milanese della Lega del primo luglio 2012 che incoronò segretario Roberto Maroni sulla scia dello scandalo economico-familiare che aveva travolto Umberto Bossi e la sua cerchia, l’intervista di Luca Zaia pubblicata con grande rilievo dal Corriere della Sera domenica 20 novembre non crea una particolare sorpresa.
Già in quella occasione, e con toni ben più vibranti, autorizzati dalla sede “riservata” in cui si esprimeva, il già allora presidente della Regione Veneto aveva stigmatizzato gli «imbecilli» (citazione testuale) che all’interno del partito ancora insistevano a prendersela con gli extracomunitari, senza capire che quella manodopera era una manna per i piccoli e medi imprenditori industriali e agricoli del Nord, alla quale quegli elettori “naturali” del Carroccio non avevano la benché minima intenzione di rinunciare. E a dargli man forte era giunto poco dopo Roberto Cota, all’epoca presidente del Piemonte, con un intervento tutto volto ad allontanare dalla Lega lo spettro del radicalismo e a farle indossare, senza nemmeno una spiegazzatura, gli abiti del moderatismo.
Per chi aveva frequentato, nella stessa veste, i congressi tenutisi nel 1997 e nel 1998 durante la fase indipendentista del partito fondato da Umberto Bossi, la sensazione era straniante: sembrava di essere piombati, per un errore di indirizzo, in un’assemblea di Forza Italia.
L’antipolitica di Zaia
La linea di Zaia, come e più di quella di tutti gli altri componenti dell’ala “governista” della Lega, da allora non ha mai mostrato ondeggiamenti sostanziali, e semmai ha trovato nuovi ambiti ai quali applicarsi.
Ne sono prova le critiche avanzate nell’intervista citata alle «battaglie di retroguardia sulle coppie gay e il fine vita» o quelle della scorsa estate contro le «gabbie ideologiche» che impedirebbero al suo partito di ampliare i consensi.
Da sempre, del populismo connaturato al Dna leghista, il leader veneto esprime – paradossalmente, dato il suo profilo di uomo delle istituzioni di lungo corso, presente in consigli elettivi da quando aveva venticinque anni – il volto più autenticamente antipolitico.
Non nel senso piazzaiolo e chiassosamente anti-establishment in cui taluni vorrebbero confinare il significato di questo aggettivo, ma in quello dell’esaltazione e della difesa, di contro alle carenze e agli intrighi del Palazzo, dell’uomo comune, semplice, laborioso, che vuole farsi i fatti suoi, tirare avanti al meglio e ottenere dallo Stato (di cui diffida) i servizi essenziali senza subirne le intrusioni in ambito privato.
Di quell’individuo, insomma, su cui Guglielmo Giannini aveva costruito la forza dell’Uomo Qualunque, effimero nella parabola elettorale ma capace di dar vita a uno stereotipo – il qualunquismo, appunto – che non si è mai congedato dalla politica italiana. E che Zaia sa coltivare con la sua assidua frequentazione di feste popolari, tagli di nastri, assemblee di associazioni d’ogni tipo in cui lodare e impersonare quella specificità locale di cui il tipo umano sopra ricordato si alimenta quotidianamente.
Il contesto
Se Zaia è dunque costantemente fedele a se stesso, diverso è però – e molto –, a distanza di dieci anni, il contesto in cui si collocano le sue affermazioni. E le conseguenze che possono avere.
Nel 2012, l’obiettivo era inaugurare una fase accelerata di deradicalizzazione del suo partito, ponendo alla sua testa un personaggio come Maroni dal profilo tutt’altro che populista e che, per essersi opposto a taluni eccessi bossiani, aveva rischiato di esserne espulso. Operazione riuscita ma dagli esiti catastrofici, con il crollo al 4,09 per cento nelle elezioni dell’anno successivo.
Un risultato che, per reazione, rilanciò proprio quel tipo di leghismo che ai governisti non piaceva affatto, e di cui Matteo Salvini era l’incarnazione: sovranista, estremo nei toni, deciso a puntare su un altro volto del populismo, ostile alle mediazioni e radicato in un’identità in cui la difesa dei modi di vita tradizionali da qualunque irruzione estranea occupa un ruolo cruciale.
Il successo di quella proposta è noto e testimoniato dal verdetto delle urne del 2018 e, soprattutto, delle europee 2019: il clamoroso 34,26 per cento che dimostrava, per la prima volta, la capacità del messaggio leghista di oltrepassare i confini della destra e raccogliere consensi trasversali.
Contro Salvini
Di fronte ad un dato di quella portata, ai moderati interni non restava altra scelta che far buon viso e attendere gli sviluppi.
E di quegli sviluppi è il frutto il quadro politico entro cui si colloca la nuova offensiva di Zaia. Che, beninteso, sottolinea i buoni rapporti personali che ha con Salvini per meglio demolirne la linea.
Con una Lega ritornata sotto il 9 per cento, e Forza Italia che la tallona ma è travagliata da dissensi intestini, gli obiettivi degli affondi possono diventare più ambiziosi: favorire quell’avvicinamento tra i due partner di governo alternativi a Fratelli d’Italia che Berlusconi, nel frattempo, sembra essere tornato a rilanciare.
Una federazione di quel tipo, oggi, pare all’ex Cavaliere meno sbilanciata in termini di forza ma, soprattutto, più gestibile sul piano dei programmi, se il Carroccio tornerà – di fatto, anche se non per forza formalmente – in mano alla sua frazione liberal-liberista. Il messaggio di Zaia sembra diretto a favorire una simile intesa.
I suoi effetti, tuttavia, non si fermerebbero qui. Il destinatario più diretto e immediato degli attacchi su immigrazione e temi etici è infatti Giorgia Meloni, che sulla (ipotetica) riscossa conservatrice, in scontro frontale con la strategia che il progressismo conduce da decenni puntando all’egemonia sull’immaginario collettivo delle generazioni più giovani e del ceto intellettuale, ha incentrato gran parte della sua campagna elettorale e di quella sorta di mini-manifesto politico/ideologico che è il suo libro Io sono Giorgia.
Arginare Meloni
Fin dalla modifica delle denominazione di alcuni ministeri, la presidente del Consiglio ha fatto capire che, almeno sul piano lessicale e dell’immagine, non è disposta a rinunziare a quel suo cavallo di battaglia, che pure non le sarà certamente facile far andare al galoppo sul difficile terreno del confronto culturale, in cui le sue risorse umane appaiono, al momento, scarse.
L’uscita di Zaia è, da questo punto di vista, un altolà. Che, a chi lo ha voluto, probabilmente appare necessario per più ragioni.
La più evidente, ma forse non la più significativa, è nelle cifre di sondaggio, che continuano a veder salire, ormai oltre la linea psicologicamente importante del 30 per cento, le intenzioni di voto per l’alleato-concorrente, mentre l’indice leghista ristagna, quando non flette.
Fare ombra ad un’immagine vincente è, da questo punto di vista, una necessità, e il metodo-Salvini degli annunci anticipati ai media di scelte governative (più o meno) comuni evidentemente a Zaia ed amici non sembra sufficiente.
La seconda, e più sostanziale, è che, puntando sui temi che possono trovare un simultaneo consenso degli elettori di tendenze populiste e di quelli di mentalità conservatrice, Meloni potrebbe, magari senza averlo intuito e programmato, ripetere l’exploit riuscito a Salvini tre anni fa: sfondare, cioè, lo steccato che separa le classiche aree di sinistra e di destra (al cui interno, in realtà, le divergenze sono ormai molto maggiori delle affinità) e conquistare voti di elettori mai attratti dalla destra ma legati ai propri tradizionali modi di vita.
Quei cittadini che, come Luca Ricolfi non si stanca di ripetere, in una sinistra più attenta ai diritti individuali che ai diritti sociali, e che si spinge sempre oltre nella ripulsa di abitudini e criteri di giudizio che fino all’altroieri sembravano scontati, fa sempre più fatica a riconoscersi.
In Francia, dove il fenomeno si è fatto sempre più palese fino a spingere intellettuali di primo piano come Jean-Claude Michéa e Michel Onfrey a dichiararsi «conservatori di sinistra», un recente sondaggio dimostra che questo distacco si sta acuendo nei ceti sociali più bassi e nei centri di provincia. Facendo crescere la propensione a votare per Marine Le Pen.
Se questo accadesse anche in Italia, alla destra “vera”, quella economica liberal-produttivista, incarnata da Zaia e da Forza Italia, non piacerebbe affatto. Mettere ostacoli sul cammino del governo diventa quindi un imperativo.
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