- Con l’accordo con l’Unione europea non si conclude la Brexit, ma si dà inizio a un processo: potrebbe portare a notevoli divergenze e alla rottura del grande mercato europeo, ma potrebbe anche consentire il mantenimento più o meno inalterato della situazione attuale.
- La questione di gran lunga più rilevante è la cosiddetta “parità di condizioni” per l’accesso al mercato unico europeo.
- Londra rischia molto: se si allontanerà dagli standard europei, perderà l’accesso al mercato unico. Oppure sarà costretta a cedere sovranità e seguire gli sviluppi del mercato unico europeo senza avere voce in capitolo.
I sostenitori della Brexit hanno ottenuto quello che volevano: la sovranità. Ora i britannici possono fare le loro norme e i loro standard su prodotti e servizi, ma se lo fanno, rischiano di perdere l’accesso al mercato unico europeo, un’area economica che pesa metà del loro interscambio commerciale.
Con l’accordo con l’Unione europea non si conclude la Brexit, ma si dà inizio a un processo: potrebbe portare a notevoli divergenze e alla rottura del grande mercato europeo, ma potrebbe anche consentire il mantenimento più o meno inalterato della situazione attuale.
E’ difficile dire quali delle due alternative prevarrà in futuro anche perché nel corso di tutto il negoziato i britannici hanno rivendicato la sovranità, ma non hanno quasi mai detto cosa intendono farne, cioè quale norme dell’Ue vorrebbero cambiare.
Per queste ragioni, dal primo gennaio per le imprese e i cittadini è cambiato assai poco, a parte più di burocrazia alle dogane. E il fatto che, almeno nell’immediato, cambi poco è l’aspetto che più è stato apprezzato dalle imprese su entrambi i lati della Manica.
Dato che la richiesta britannica riguardava non singole norme, ma il principio di sovranità, il negoziato ha riguardato principalmente le istituzioni preposte alla soluzione di eventuali divergenze normative. Il cuore dell’accordo è quindi l’istituzione di un Consiglio per il partenariato, con ampi poteri non solo di monitorare le regole, ma anche di fare raccomandazioni, e persino di modificare l’accordo entro i quattro anni successivi alla sua entrata in vigore.
Inoltre, in caso di controversie commerciali, interverrà una commissione bilaterale d’arbitrato, composta da esperti indipendenti, che opereranno, almeno in prima istanza, senza coinvolgere la Corte di Giustizia Europea come i sostenitori di Brexit volevano, anche se ci sono dubbi sull’efficacia di questa soluzione.
Che da parte britannica non vi fosse grande voglia di cambiare specifiche regole è reso anche evidente dal fatto che nell’accordo vi è un impegno formale a competere in modo leale, con parità di condizioni, senza utilizzare l’autonomia regolamentare per dare sussidi ingiustificati o distorcere la concorrenza, evitando in tal modo tariffe e quote nell’interscambio.
E’ come se si fosse detto: «Questa è una prima traccia, con la quale abbiamo la possibilità di modificare l’accordo in futuro, ma per ora possiamo continuare a fare grosso modo quello che facevamo prima».
A quali condizioni
La questione di gran lunga più rilevante è la cosiddetta ‘parità di condizioni’ (level playing field) per l’accesso al mercato unico europeo, che ovviamente implica anche una regolamentazione equivalente per gli aiuti di stato alle imprese.
Di solito è l’area più piccola che deve allinearsi a quella più grande. Così funziona con altri paesi, come la Norvegia, che per avere l’accesso al mercato unico europeo rinuncia ad avere voce in capitolo.
Formalmente, con il Regno Unito si è seguita una strada diversa perché l’accordo in apparenza offre diritti paritetici ai due contraenti. Londra però rischia molto di più dato che, se si allontanerà dagli standard europei, perderà l’accesso al mercato unico. Oppure sarà costretta a cedere sovranità e seguire gli sviluppi del mercato unico europeo senza avere voce in capitolo.
Guardando alla sostanza economica, molti robusti interessi inglesi sono stati sacrificati sull’altare del feticcio della sovranità. Infatti, l’accordo non copre l’interscambio di servizi, e soprattutto di quelli finanziari, che per il Regno Unito sono di primaria importanza.
Nel testo si dice che «queste sono e rimarranno decisioni unilaterali dell’Unione europea e non saranno oggetto di negoziazione».
I fornitori di servizi finanziari del Regno Unito nell’Ue dovranno rispettare le regole del paese ospitante in ogni stato membro. Non beneficeranno più del cosiddetto principio del paese di origine e del riconoscimento reciproco dei diritti di passaporto per i servizi finanziari.
Pertanto, molti fornitori di servizi del Regno Unito dovranno stabilire nell’Ue una loro presenza per svolgere determinate attività. Solo in una fase successiva l’equivalenza normativa finanziaria potrà forse essere concessi in settori specifici e divenire parte dell’attuale intesa.
Si spera che questa vicenda apra in tutta l’Europa una riflessione seria sull’illusione di fondo che ha portato alla Brexit: l’illusione che in un mondo altamente interconnesso si abbia più sovranità quando la si esercita in solitudine e senza alcuna possibilità di incidere sulle decisioni che contano anziché condividerla con altri, come avviene nell’Unione europea.
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