Netanyahu sembra sempre più convinto di licenziare Gallant per perseguire i suoi scopi: distruggere le postazioni da cui vengono sparati missili sulla Galilea e permettere il ritorno a casa delle sessantamila persone che abitano a ridosso del confine e sono state costrette a rifugiarsi in luoghi più sicuri del Paese
La defenestrazione largamente annunciata del ministro della Difesa di Israele Yoav Gallant è un passo ulteriore verso un'altra escalation (non c'è limite al peggio) in Medioriente. E, contemporaneamente, una stampella decisiva per puntellare la traballante maggioranza di Benjamin Netanyahu.
Pur di perseguire il duplice scopo, il premier si risolverebbe a perdonare, con il beneplacito della moglie Sara la sua prima consigliera, Gideon Sa'ar, un suo furibondo accusatore, uscito dal Likud per protesta contro i metodi da padre padrone del leader, e che tuttavia porta in dote i quattro seggi del suo partito di estrema destra “Nuova speranza”. Non solo. Sa'ar è disposto a sostenere la legge che esenta dal servizio militare gli studenti delle scuole religiose. Se passasse, potrebbe provocare la crisi di governo per l'uscita dall'esecutivo dei partiti ultraortodossi. Sancendo così la fine del lungo regno di Netanyahu.
Dunque dentro Sa'ar e fuori Gallant. Il quale è contro i favoritismi per i religiosi e si è più volte scontrato con Bibi circa i metodi di conduzione della guerra. Non propriamente una colomba: la Corte penale internazionale ha chiesto il suo arresto per lo sterminio dei civili a Gaza e per aver utilizzato la fame come metodo di guerra.
E tuttavia uno dei pochi critici, lui che fu generale, circa certi eccessi nell'offensiva sulla Striscia. Né gli è valso, per salvare la poltrona, lo schierarsi all'ultima ora a favore di una massiccia operazione in Libano contro Hezbollah. Tradotto, è l'invasione che sembra sempre più imminente. Scopo dichiarato dell'attacco, distruggere le postazioni da cui vengono sparati missili sulla Galilea e permettere il ritorno a casa delle sessantamila persone che abitano a ridosso del confine e sono state costrette a rifugiarsi in luoghi più sicuri del Paese.
È almeno dubbio che l'intervento in Libano (sarebbe il primo di grande portata dal 2006) possa portare benefici e aumentare la sicurezza di Israele. Le capacità belliche di Hezbollah, assai superiori a quelle di Hamas, e la solidarietà sciita che ne deriverebbe porterebbe probabilmente a un allargamento regionale del conflitto, con l'intervento a qualche titolo dell'Iran e degli Houthi yemeniti che hanno già dimostrato la capacità di colpire lo Stato ebraico sia con i droni sia addirittura con i missili ipersonici. Dopo mesi di scaramucce di confine sarebbe lo scoppio conclamato delle ostilità e Tsahal sarebbe impegnata su due fronti di terra. La supremazia militare di Israele è scontata ma non è infinita. La stessa amministrazione americana ha già messo in guardia circa i pericoli derivanti dal nuovo scenario.
Scenario che preoccupa e non poco i parenti degli ostaggi del 7 ottobre ancora in vita, per i quali ogni allargamento del conflitto riduce le possibilità di sperare in un ritorno a casa dei propri cari. Mentre il cambio della guardia Gallant-Sa'ar, con le conseguenze che porta, sarebbe ovviamente applaudito dal più falco tra i falchi, e cioè Itamar Ben-Gvir, il ministro della Sicurezza nazionale, rappresentante del fronte messianico dei coloni, il quale già in passato aveva reclamato a gran voce la testa del titolare della Difesa ora in via d'uscita.
Netanyahu, insomma, non molla come auspicato da una larga fetta di israeliani e anzi rilancia. Sembra spinto anche dall'esigenza di creare una situazione di fatto sul terreno prima delle elezioni americane, ormai distanti meno di due mesi, e cautelarsi chiunque esca vincitore nella corsa alla Casa Bianca.
Teme il trionfo di Kamala Harris. Ma anche se prevalesse il suo vecchio sodale Donald Trump dovrebbe guardarsi dagli eventuali colpi di coda dell'uscente Joe Biden con cui gli screzi sono stati innumerevoli. Biden resterà comunque in carica fino a gennaio inoltrato. Va ricordato un precedente. Un altro democratico, Bill Clinton, nel 2000 poco prima di lasciare il potere, promosse, anche se senza successo, la trattativa di pace a Camp David tra Yasser Arafat e Ehud Barak, l'allora premier di Israele. Pace, una parola fuori corso da tempo immemorabile.
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