- Il video con cui il fondatore del M5S difende suo figlio dall’accusa di stupro è la manifestazione eclatante del perdurare di una cultura che trasforma le vittime in colpevoli, le intimidisce e le umilia.
- È però anche il segnale di una baldanza, di una spregiudicatezza propriamente populista, che fa cadere la maschera dell’idealità, che svela il cinismo dell’interesse.
- Dove sono oggi i detrattori del “politicamente corretto”, usi a puntare il dito contro l’“ipersensibilità” dei soggetti offesi? Saranno contenti: Grillo esibisce senza filtro il potere dei dominanti, che non si giustifica né chiede scusa.
«Avete voluto la parità di diritti? Avete voluto scimmiottare l’uomo? Se questa ragazza si fosse stata a casa, se l’avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente». È il 1978, quattro uomini vanno a processo per aver violentato una ragazza, ma a finire sul banco degli imputati è lei. Nelle aule di tribunale è nient’altro che la prassi, che però questa volta è portata alla conoscenza del grande pubblico grazie al lavoro di sei registe romane, con il documentario Rai Processo per stupro.
Da allora sono passati oltre quarant’anni, che hanno visto l’approvazione di una legge contro la violenza sessuale, piani nazionali contro la violenza, campagne di sensibilizzazione e migliaia di ore di formazione per operatori. Uno sforzo per niente trascurabile che tuttavia, a quanto pare, è ancora del tutto insufficiente, se un leader politico può occupare i palinsesti informativi con le sue grida scomposte contro chi accusa di stupro di gruppo suo figlio e altri tre amici.
Il video di Beppe Grillo non rivela l’opportunistica conversione al garantismo di un personaggio che ne ha fatto spesso strame. Piuttosto, è un’aperta e perentoria accusa di simulazione lanciata contro la ragazza che ha sporto denuncia. È ben strano, tuona il garante del Movimento 5 stelle, che costei abbia fatto passare otto giorni prima di denunciare, o che il giorno dopo fosse in mare a fare kitesurf.
Potrà mai esserci stata violenza se la vittima non ha pianto a favore di videocamera, se non è corsa subito al commissariato, se non si è chiusa nella sua stanza per giorni senza aprire a nessuno? La risposta è sì. Forse non lo sapevamo abbastanza nel 1978, oggi però sì, lo sappiamo. Chiunque dovrebbe saperlo. E non è lecito a nessuno dubitare della parola di una donna basandosi sulle sue abitudini di vita, sul suo abbigliamento, o sul modo personale in cui reagisce a quanto subito.
La trasformazione della vittima in accusata non solo è una seconda violenza, ma è anche una precisa strategia di autoconservazione del potere maschile. Lo diceva bene Tina Lagostena Bassi, avvocata di parte civile nel caso del Processo per stupro, denunciando la «solidarietà maschilista» tra stupratori e sistema della giustizia: «solo se la donna viene trasformata in imputata, solo così si ottiene che non si facciano denunce per violenza carnale».
Il video del fondatore del M5S è allora, innanzitutto, la manifestazione eclatante del perdurare di una cultura dello stupro che colpevolizza, intimidisce e umilia le vittime. Ma è anche il segnale di una baldanza, di una spregiudicatezza propriamente populista, che fa cadere la maschera dell’idealità, che svela il cinismo dell’interesse.
Dove sono oggi i detrattori del “politicamente corretto”, usi a puntare il dito contro l’“ipersensibilità” dei soggetti offesi? Saranno contenti: Grillo esibisce senza filtro il potere dei dominanti, che non si giustifica né chiede scusa. La solidarietà maschile si fa apertamente strumento di conservazione del privilegio, mentre nasconde la verità: che il sesso senza consenso si chiama violenza.
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