La lengua es compañera del imperio”: questo è il famoso motto di Antonio de Nebrija, celebrato autore della Gramática de la Lengua Castellana, prima sistemazione grammaticale dello spagnolo, uscita nel fatale anno 1492 in cui Cristoforo Colombo mise piede nel continente americano. Nebrija, che visse abbastanza da assistere alle prime fasi dell’insediamento spagnolo in America latina e della diffusione forzosa del castigliano in quelle terre, sapeva bene di cosa parlava.

Quella frase fu la prima lapidaria formulazione di una sorta di legge universale del potere. Infatti, in tutti i casi in cui una Grande Potenza tenta di stabilire un impero su terre altrui, uno dei primi campi in cui interviene è la lingua, tra le istituzioni immateriali quella che rappresenta più fortemente l’identità e la storia di un popolo.

Infatti la Russia ha aspettato solo poche settimane dopo l’inizio della guerra per avviare un programma di deucrainizzazione nelle regioni occupate nella zona est, stabilendo che la sola lingua ufficiale sia il russo, che da settembre la parola "Ucraina" scompaia dai libri per le scuole della regione di Kherson e che i libri di storia siano ispirati ai principi russi.

Derussificazione

Per tutta risposta, il parlamento ucraino ha preparato un piano di derussificazione con un disegno di legge che limita l’importazione di libri da Russia, Bielorussia e dalle regioni ucraine non controllate da Kiev. Fine modulo

Andrii Vitenko, viceministro dell'Educazione e delle Scienze dell'Ucraina, ha annunciato che la letteratura russa uscirà dai programmi scolastici e universitari del Paese.

Le due lingue, sebbene molto prossime, non sono intercomprensibili, sicché cancellarne una può creare seri scompensi nelle persone che parlano solo o prevalentemente quella.

Tutte queste operazioni, già difficili a concepirsi, nella pratica sono impossibili. Nell’Europa centrale, infatti, i confini sono tra i più ardui a fissarsi a causa delle migrazioni, dei frequenti cambi di dominazione e della pratica degli insediamenti coatti.

Nazionalità vs cittadinanza

Per mettere, alla maniera sua, un po’ d’ordine in questo garbuglio, nel 1932 l’Urss aveva inventato una differenza tra “nazionalità” e “cittadinanza”, che veniva registrata nei passaporti: ogni abitante dell’Unione aveva cittadinanza sovietica, ma doveva specificare la sua nazionalità (russo, ucraino, polacco, uzbeco ecc.).

Questa pratica, decaduta con la dissoluzione dell’Urss, ha lasciato traccia in una intraducibile differenza terminologica: i russi di cittadinanza sono rossijskij, i russi di nazionalità russkij.

Anche dopo l’abbandono della distinzione, la “nazionalità” tatara ha preteso che i suoi passaporti continuassero a registrare questo dettaglio. Per questo quelli che i nostri media chiamano “russi di Ucraina” sono in effetti ucraini russofoni, cioè cittadini ucraini di nazionalità russa.

A complicare le cose c’è il fatto che l’Ucraina è una delle zone d’Europa più ricche di lingue. I suoi confini ne contengono infatti decine (oltre a ucraino e russo, rumeno, bulgaro, turco di Crimea o ungherese), con frequentissimi casi di bilinguismo.

Nella zona est sono numerosi gli ucraini russofoni (quelli che Mosca considera suoi cittadini), a ovest si parla per lo più l’ucraino, nel centro è usuale il bilinguismo.

È per questo che si trovano dirigenti politici ucraini di “nazionalità russa”, quindi russofoni nativi (come l’attuale presidente Volodymyr Zelensky, propriamente Zelens'kij) o che addirittura conoscano solo il russo.

Dopo una serie di leggi che autorizzavano l’uso delle lingue “regionali” (cioè le più diffuse in talune zone del paese, come il russo nel Donbass), Petro Porošenko (il predecessore di Zelensky), tra le polemiche e con una maggioranza risicata, fece passare nel 2019 una “legge sulla lingua” con cui le lingue minoritarie (russo compreso) perdevano lo status di lingue regionali e subivano limitazioni all’uso in pubblico.

Al momento dell’inizio della guerra, quindi, l’ucraino era la sola lingua ufficiale dell’Ucraina. In un certo senso, era ovvio che, con l’inizio dell’invasione, la Russia si prendesse la rivincita.

L’intreccio 

I casi di incroci tra nazionalità, cittadinanza e lingua sono infiniti e complicatissimi. Svjatlana Aleksievič, premio Nobel per la letteratura nel 2015, ne dà un esempio perfetto: nata in Ucraina, è di nazionalità bielorussa e scrive in russo.

Dalle coppie formate da una persona russa e una ucraina derivano famiglie bilingui. In una situazione del genere, si può immaginare il terremoto che potrebbe accadere quando una comunità di famiglie miste, che fino a un momento prima ha parlato in perfetto bilinguismo sia russo sia ucraino, si trovasse a dover cancellare una delle due per usare solo l’altra.

Da parte della Russia, del resto, l’imposizione forzosa della lingua ad altri è una pratica antica. Nella sua bellissima biografia di Marie Curie (Bollati Boringhieri 2013), Susan Quinn racconta che Maria (nata Skłodowska a Varsavia) nelle sue lettere si lamenta spesso delle sofferenze che alla fine del Secolo XIX si pativano nelle scuole polacche per l’obbligo perentorio di usare solo il russo e studiare su programmi russi.

Diversi amici e amiche cèchi e polacchi mi hanno raccontato del sollievo che provarono quando, alla caduta dell’Urss, poterono sbarazzarsi dell’insegnamento del russo come seconda lingua obbligatoria per tutti.

Non sono naturalmente solo i russi a imporre regole di questo genere. Molti di noi ricordano che una delle idee fisse del Fascismo fu quella di italianizzare i nomi, i cognomi e i topònimi non italiani, inventando sostituti spesso fantasiosi e ridicoli.

Queste norme colpirono soprattutto le zone di confine (come il Sud Tirolo, ribattezzato nell’occasione Alto Adige), che ancora rivendicano il ritorno alle denominazioni originarie. Fuori d’Italia il Fascismo fece di peggio.

Il quadrumviro Cesare Maria De Vecchi, governatore delle isole del Dodecaneso, impose tra infinite proteste che a partire dal 1937 nelle scuole di quelle isole lontanissime dall’Italia si insegnasse esclusivamente l’italiano, cancellando il greco.

Questi fatti mostrano che il volto linguistico delle guerre e delle dominazioni è primitivo e barbarico. Non per caso, uno dei primi esempi appare nella Bibbia (Giudici, 12, 4-7).  I Galaaditi, dopo aver sconfitto gli Efraimiti, si dettero alla ricerca dei sopravvissuti. A chi si presentava per traversare il Giordano chiedevano di dire la parola shibboleth, sapendo che per gli Efraimiti la sh era impronunciabile.

Chi al suo posto pronunciava con la s veniva ucciso sul posto. Con un inquietante ritorno, la storia si è ripresentata in Ucraina nel marzo 2022, quando gli ucraini cominciarono a usare lo stesso stratagemma della pronuncia (in ucraino al posto della [g] russa c’è una sorta di [h]) per riconoscere gli infiltrati e i sabotatori russi.

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