Quasi esattamente un secolo fa, il deputato socialista Giacomo Matteotti scrisse una lettera al settimanale britannico The Statist per criticare la politica economica di Mussolini, una politica che avrebbe dovuto essere rivoluzionaria, ma che si era tramutata in un’ordinaria difesa degli interessi dei più ricchi non appena il governo fascista si era insediato.

«L’unica grande riforma del regime fascista – scriveva Matteotti – è stata l’abolizione dell’imposta di successione e noi la consideriamo un grave errore». Il settimanale pubblicò la lettera il 7 giugno del 1924. Tre giorni dopo, Matteotti veniva rapito e ucciso da una squadraccia fascista.

Questa lettera è uno dei documenti che sta raccogliendo Giacomo Gabbuti, dottorando dell’università di Oxford che, come borsista dell’Istituto italiano di studi storici di Napoli, sta conducendo una ricerca sull’abolizione dell’imposta di successione del 1923, un evento chiave nella prima fase del regime fascista oggi quasi completamente dimenticato.

La sua ricerca non potrebbe essere più attuale. Negli ultimi giorni si è tornati a parlare di introdurre un’imposta di successione dopo che il segretario del Pd Enrico Letta ha proposto di usarla per finanziare un bonus ai giovani meno abbienti. La proposta ha causato un intenso dibattito in cui sono state richiamate vecchie argomentazioni.

Gabbuti ha notato ad esempio come i titoli di giornale di questi giorni richiamino temi e argomenti di quelli degli anni Venti. Che l’imposta di successione sia «un colpo di piccone alla famiglia, in quanto istituto della società borghese», ad esempio, è una frase che avrebbe potuto essere scritta nel 1920 oppure un secolo dopo. «Per uno storico è interessante notare che in questo paese abbiamo già avuto un dibattito, ma non sembra esserne rimasta alcuna memoria – dice Gabbuti – Nemmeno gli economisti progressisti tengono conto di queste vicende».

Un vecchio problema

L’Italia ha da tempo un rapporto complicato con la tassazione. Per quanto il nostro sistema fiscale sia, sulla carta, uno dei più severi d’Europa, è anche uno dei più evasi. Il risultato è che le imposte sono distribuite iniquamente. A pagare sono soprattutto i lavoratori dipendenti, mentre autonomi e imprenditori riescono spesso a sfuggire alle maglie del fisco.

Un modo per aggirare questo problema, suggerito spesso dalle organizzazioni internazionali, è spostare la tassazione dal reddito alla ricchezza. L’introduzione di una nuova imposta patrimoniale, che vada a sostituire lo spezzatino di imposizioni sulla ricchezza che esiste oggi, viene riproposta ciclicamente e regolarmente viene respinta da un fronte compatto e trasversale. Per il centrosinistra, parlare di patrimoniale è diventato sinonimo di autolesionismo, come se nel nostro paese si fosse sviluppata una vera e propria paranoia sulle imposte patrimoniali. Per spiegare questa idiosincrasia potrebbe essere utile ritornare proprio all’abolizione del 1923.

Un’imposta trasversale

Anche se all’epoca si discuteva di numerose ipotesi di modifica, nel 1923 nessuno si aspettava la completa cancellazione delle imposte sulle eredità trasmesse all’interno della famiglia, ricorda Gabbuti. Tra gli scopi della sua ricerca c’è proprio capire come si sia arrivati a questa drastica decisione: dal ruolo di Mussolini a quello del suo ministro del Tesoro, l'accademico e squadrista Alberto De’ Stefani, fino all’azione dei gruppi di pressione favorevoli all’abolizione. La parte oggi più attuale di questa vicenda riguarda però cosa era accaduto negli anni immediatamente precedenti all’abolizione.

L’imposta di successione nella sua versione moderna esiste da circa due secoli ed è spesso stata relativamente popolare. Piace ad una parte dei liberali, perché contribuisce a creare quelle condizioni di “uguali punti di partenza” a cui molti sono legati, ma piace anche a sinistra e ai socialisti, perché contribuisce tout court all’eguaglianza.

In Italia, il clima intorno a questa imposta si surriscalda dopo la Prima guerra mondiale. I “profittatori di guerra” sono accusati di aver accumulato enormi fortune con metodi poco limpidi, mentre i lavoratori avevano sostenuto nelle trincee e nelle fabbriche il peso di un conflitto che spesso non avevano voluto. Un po’ in tutti i paesi avanzati si cerca di “arruolare il capitale” nel difficile percorso di ritorno alla normalità.

In questi anni turbolenti, in Italia viene presentata una proposta draconiana di riforma dell’imposta di successione, che prevede di alzare le aliquote al livello più alto d’Europa. A proporla non è la sinistra massimalista, ma il centro moderatamente progressista del presidente del Consiglio Giovanni Giolitti. «Il retroscena di quella decisione lo spiega Giolitti stesso nelle sue memorie – racconta Gabbuti – il governo aveva bisogno di qualcosa da offrire alla sinistra in cambio dell'abolizione del prezzo politico del pane, una misura popolare ma costosissima per le casse del governo».

Bastone e carota

Assieme ad altre misure, un’imposta di successione punitiva era, in altre parole, la carota alle classi popolari per addolcire l’arrivo del bastone. Alcuni tra i socialisti e gli economisti a loro vicini – ricorda Gabbuti – sottolinearono a Giolitti che il problema dell’imposta di successione non erano tanto le aliquote, quanto l'elevata evasione e quindi la necessità di rafforzare gli uffici tributari.

Ma alla fine a spuntarla fu Giolitti, e la nuova imposta venne approvata. Come i socialisti avevano previsto, il gettito rimase invariato, ma tra le classi benestanti si diffuse un forte pregiudizio nei confronti della nuova tassa. Un pregiudizio talmente forte da contribuire, almeno in parte, all'abolizione dell’imposta due anni dopo.

Sembra quasi esserci un parallelo tra questi eventi e quello che abbiamo visto in Italia negli ultimi anni. La proposta di una patrimoniale, e oggi quella di una nuova tassa di successione, provengono in genere dai partiti del centrosinistra che da ormai due decenni sono alla ricerca di una “carota” identitaria con cui recuperare gli elettori delle classi popolari che hanno perso con il “bastone” del loro sostegno alle politiche di austerità.

«La politica fiscale è spesso fatta di dettagli», dice Gabbuti. Anche i grandi piani di riforma, cioè, rischiano di essere vanificati da qualche tecnicalità che ha ampie ricadute in termini di ripartizione del carico fiscale. «Agitare singole misure d’impatto, anche se più che condivisibili come l’imposta di successione, su cui non a caso il Forum disuguaglianze e diversità ha in campo una proposta articolata da più di due anni, senza discuterne i dettagli e senza aver prima creato una coalizione in grado di supportarle e renderle concrete, rischia non solo di rimanere una bandiera, ma di finire per fornire argomenti a chi si oppone a una vera riforma progressiva del fisco».

Per chi spera in una tassazione più equa e progressiva, questa è una prospettiva fosca. Più che ampi piani di riforma fiscale, quello che abbiamo spesso visto negli ultimi anni sono proposte spot fatte per necessità di posizionamento che spesso producono effetti opposti a quelli desiderati. L’idea improvvisa di ripristinare l’imposta sull’eredità, la gelida reazione del presidente del Consiglio Mario Draghi e di gran parte dei commentatori, sembrano indicare che questo copione non sia ancora destinato a cambiare.

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