Le istituzioni si vanno disfacendo ed è a questo che l’Italia deve fare attenzione. Non possiamo reggere un altro stato fallito alle nostre frontiere, se non a prezzo di instabilità e nuovi flussi
Con la Tunisia le relazioni sono oggettivamente complesse. Il governo del presidente Saïed non trova il consenso interno necessario per impostare la politica di autorità che la situazione richiede. Inoltre le polemiche intestine tra il vecchio sistema politico e la nuova governance autoritaria proseguono con la magistratura a fare da arbitro, con tutti i limiti del caso. Inserirsi in questo vespaio con la priorità migratoria appare una scommessa, sia per l’Italia sia per l’Unione europea. La questione dei soldi è reale ma non l’unica ragione del crollo dei controlli che provoca l’afflusso dei barchini.
Da una parte non è detto che Saïed controlli davvero i suoi: tra polizia, esercito e altri apparati di sicurezza è in corso una lotta per chi avrà più influenza in futuro. La Tunisia sta vivendo la sua sindrome libica. D’altra parte non era immaginabile che il disfacimento dello stato frontaliero non avesse impatto, con oltre 500.000 libici che si sono riversati a Tunisi, in gran parte classe media che non si vuole allontanare troppo dalla Tripolitania. Ciò significa che in Tunisia lo stato non è cosi forte come vuole apparire.
D’altra parte il fatto che sia violento non significa che sia in controllo: le istituzioni si vanno disfacendo ed è a questo che l’Italia deve fare attenzione. Non possiamo reggere un altro stato fallito alle nostre frontiere, se non a prezzo di instabilità e nuovi flussi. L’aspetto più grave dello scenario globale attuale è precisamente la fine degli stati nazionali in favore di situazioni ibride o anarchiche, in cui il potere va a gruppi, milizie, reti criminali. Si dice che i fatti di Lampedusa siano creati ad hoc dalle mafie: che sorpresa c’è in questo? Quando si creano opportunità di guadagno, la criminalità internazionale vi si infila, come sempre accade. Quello che dobbiamo fare è dire a Saïed come fare a occuparsi del governo dello stato e delle sue istituzioni. Solo cosi avremo più possibilità di controllare anche i flussi.
Per fermare il disfacimento tunisino non si parte a valle ma a monte. In quest’epoca i leader autoritari sono molto più deboli di ciò che si può pensare: anche i golpe africani sono un segnale di fragilità. I militari africani non hanno il dominio del loro territorio come avevano i loro predecessori negli anni Ottanta. Cosi avviene anche in nord Africa. Lo stesso al Sisi deve fare molta attenzione perché i rischi di decomposizione per l’Egitto provengono da sud, cioè dal Sudan in guerra. A Khartum non c’è più stato e i sudanesi si stanno nuovamente riversando a milioni verso il Cairo. Alle debolezze economiche egiziane si sommano così i rischi provenienti dalla regione. L’Italia ha tutto l’interesse ad avere di fronte governi stabili. In versione pragmatica di politica estera, ciò significa che dobbiamo sostenere quegli stati anche se non hanno un tasso di democrazia così alto.
Se non c’è più lo stato non c’è democrazia o diritti che tengano. Tuttavia ciò non significa che dobbiamo accettare qualunque cosa ci dicano, come ad esempio con Saïed. Non bisogna essere troppo tolleranti con le sue intemerate che celano fiacchezza. La questione dei soldi del Fondo monetario, dell’Europa e dell’Italia appaiono come un gioco delle tre carte alla tunisina: occorre fare chiarezza soprattutto su quanto sia forte la tenuta del suo stato. Sono queste le domande da fargli. Altrimenti sarebbe meglio parlare direttamente coi militari. Qualcuno sostiene che siano loro a imporre al presidente tutte le scelte. Perché dunque non andare direttamente alla fonte?
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