- Dopo le crisi del 2008 e 2011/12 il mondo ha vissuto un decennio di crescita, bassi tassi di interesse, e stabilità dei prezzi. Il merito è andato alle banche centrali, che hanno saputo finanziare la crescita ancorando le aspettative di inflazione, e adottare nuovi strumenti per neutralizzare l’impatto di crisi finanziarie e shock imprevisti, come la pandemia.
- Questo successo è in buona parte il risultato della globalizzazione e della crescita di Cina e Far East che hanno calmierato prezzi e salari nel mondo, permettendo alle banche centrali di finanziare le economie con tanta liquidità, senza doversi preoccupare dell’inflazione.
- Così abbiamo sopravvalutato la capacità delle banche centrali di prevedere la dinamica dei prezzi.
Dopo le crisi del 2008 e 2011/12 il mondo ha vissuto un decennio di crescita, bassi tassi di interesse, e stabilità dei prezzi. Il merito è andato alle banche centrali, che hanno saputo finanziare la crescita ancorando le aspettative di inflazione, e adottare nuovi strumenti (quantitative easing, tassi negativi) per neutralizzare l’impatto di crisi finanziarie e shock imprevisti, come la pandemia.
Questo successo è in buona parte il risultato della globalizzazione e della crescita di Cina e Far East che hanno calmierato prezzi e salari nel mondo, permettendo alle banche centrali di finanziare le economie con tanta liquidità, senza doversi preoccupare dell’inflazione.
Ma che ha indotto a sopravvalutare la capacità delle banche centrali di prevedere la dinamica dei prezzi.
Si spiegherebbe così perché in pochi mesi siano diventate loro stesse fonte di rischio e incertezza, sorprese dallo scoppio dell’inflazione, quasi fosse uno shock esogeno invece della variabile che avrebbero dovuto controllare.
La Federal Reserve (Fed) ha sottostimato l’impatto sui prezzi delle politiche ultra espansive per fronteggiare il Covid. Per mesi ha ripetuto che gli aumenti dei prezzi erano temporanei, e quindi non si dovevano aumentare i tassi per non pregiudicare il raggiungimento della piena occupazione.
Ma se guardiamo a come si è evoluto il livello del tasso di riferimento che i membri del Board considerano necessario per raggiungere gli obiettivi di inflazione e piena occupazione (il dot plot), vediamo che a dicembre dell’anno scorso la mediana del tasso previsto per fine 2023 era l’1,6 per cento (e 0,80 per la fine di quest’anno, quando oggi siamo già a 1,75), salito a 2,75 a marzo, per poi raggiungere 3,75 a giugno.
È evidente come la Fed sia stata presa alla sprovvista e non avesse un modello valido per capire e prevedere l’inflazione.
A peggiorare la sua credibilità, dopo aver dichiarato più volte che gli incrementi dei tassi sarebbero stati dello 0,50, a giugno li ha aumentati dello 0,75; e il presidente Powell ha dichiarato che i prossimi aumenti dipenderanno dei dati futuri sull’inflazione, che l’inflazione “core” non sarà più il riferimento della Fed perché i cittadini guardano al costo della vita che include la benzina e gli alimentari (non era ovvio?); e che ci sono troppe variabili al di fuori del controllo della Fed perché questa possa stimare tempi e costi di raggiungere l’obiettivo del 2 per cento.
Lodevole onestà intellettuale; ma così è impossibile che la Banca Centrale riesca ad ancorare le aspettative, vista l’incertezza delle sue.
I modelli sbagliati
Gli economisti sono bravi a razionalizzare il passato e nei prossimi anni ci spiegheranno che cosa è andato storto. Ma già ora sappiamo che due modelli comunemente usati per stimare l’inflazione, come l’output gap, che considera la distanza tra domanda e offerta potenziale, e la curva di Phillips, ovvero l’impatto dell’occupazione sui prezzi tramite le spinte salariali, sono lacunosi.
Forse perché trascurano l’impatto delle variabili finanziarie su aspettative e comportamenti. Questo potrebbe però spiegare perché il mercato si è convinto che la Fed causerà una recessione.
Powell ha infatti dichiarato che l’aumento dei tassi continuerà fino a quando ci sarà evidenza che la crescita dei prezzi ha rallentato, ma allora sarà troppo tardi: già adesso, infatti, l’effetto ricchezza del crollo delle attività finanziarie e del mercato immobiliare, indotto dall’aumento del costo dei mutui, sta avendo un forte effetto deflazionistico.
Il deficit di credibilità
In Europa, a differenza degli Usa, l’inflazione è prevalentemente importata e dal lato dei costi, ma anche la Bce soffre di un deficit di credibilità.
A lungo ha sottovalutato l’inflazione, ritenendola temporanea, e conseguenza di shock reali, come le disfunzioni nelle filiere di produzione e la guerra in Ucraina, per i quali la banca centrale non ha gli strumenti adatti.
Ciononostante, la Bce ha aumentato i tassi dello 0,25, senza una convincente argomentazione, e lasciando il mercato nella più totale incertezza sulle prossime mosse: quanti saranno gli aumenti? E di quale entità, 0,25 o 0,50? Qual è il livello dei tassi considerato neutrale nel lungo periodo? Come può un aumento dei tassi ridurre un’inflazione da costi importata?
Era scontato che un aumento dei tassi avrebbe creato dubbi sulla sostenibilità del debito italiano, specie alla luce della situazione politica dove già abbondano le richieste di spesa pubblica alla ricerca del facile consenso.
Ma, invece di presentare un piano credibile di interventi per scongiurare quella che chiama eufemisticamente “ frammentazione”, la Bce prima ha indicato nel reinvestimento dei titoli in scadenza lo strumento per eventuali interventi (insufficienti perché limitati per definizione); poi, sull’onda della confusione che ha creato, ha convocato subito dopo una riunione di emergenza soltanto per dire di aver chiesto allo staff di studiare un nuovo strumento per intervenire qualora lo spread superasse un livello critico: quando si saprà in che cosa consiste lo strumento? Verranno richieste condizioni?
A quale livello di spread si attiva lo scudo? Affiancherà o sostituirà gli interventi Omt e del Meccanismo di Stabilità Europeo che già esistono per questo scopo?
È difficile immaginare che la Bce non abbia pensato alle conseguenze di un aumento dei tassi sul debito pubblico italiano e, piaccia o meno, sa che deve intervenire a stabilizzare lo spread se non vuole l’implosione della moneta unica.
L’unica spiegazione è che voglia aprire lo scudo anti spread solo dopo che lo spread abbia raggiunto un misterioso livello critico.
Le ragioni recondite della Bce
Si può solo speculare perché la Bce lo faccia; ma è certo che così facendo incoraggia gli investitori a fare profitti vendendo Btp fino a scoprire quale sia questo livello, necessariamente più alto di quello attuale. A quel punto la Bce interverrà, ma a danno già fatto.
Incongruenze di politica monetaria anche in Giappone, che il quantitative easing e i tassi negativi li ha inventati.
Da anni la Banca Centrale acquista titoli di stato senza limiti per tenere il loro rendimento entro lo 0,25 per cento al fine di vincere la deflazione: con i tassi in rialzo nel mondo questa politica ha però avuto l’effetto di svalutare pesantemente lo yen (22 per cento rispetto al dollaro), aumentando i prezzi importati.
Ma ora si scontra con due problemi: il primo è l’impatto recessivo della caduta del potere di acquisto dei consumatori, visto che i salari sono fermi da anni; il secondo è la svalutazione nei confronti dello yuan cinese, che è arrivato ad apprezzarsi del 32 per cento rispetto alla moneta giapponese, causando una grave perdita di competitività.
L’ultima volta che lo yuan si è apprezzato così tanto rispetto allo yen, c’è stata poi la svalutazione del 2015 della moneta cinese, con ripercussioni in tutto il mondo.
La Banca del Giappone sta mettendo in crisi anche altri paesi esportatori, come Corea, Taiwan o Tailandia, che invece devono aumentare i tassi per difendere il cambio e salvaguardare la sostenibilità del loro debito estero in valuta; perdendo ulteriormente competitività.
La Banca del Giappone ha appena reiterato la sua politica per non perdere credibilità; ma mantenendola rischia di innescare una crisi in Asia dalle ricadute potenzialmente pervasive.
La pandemia e la guerra in Ucraina hanno creato incertezza nei mercati; ma le banche centrali, per ragioni diverse, la stanno amplificando.
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