- La decisione della Bce è stata letta in chiave italiana come un tentativo di disciplinare il governo in carica.
- È un’interpretazione che non ha basi solide
- Questo non vuol dire che la politica aggressiva della Bce sia giustificata. La dinamica propria dell’inflazione e l’elevata incertezza avrebbero piuttosto consigliato un approccio più attendista.
Negli ultimi anni, si è sviluppata un’interessante letteratura accademica sulla comunicazione delle banche centrali. Le decisioni di politica monetaria hanno un impatto diretto sull’economa (un aumento dei tassi di interessi rende più costoso l’accesso al credito) ma anche un effetto indiretto inducendo cambiamenti nei comportamenti di imprese e famiglie.
La politica monetaria passa anche per l’influenza sulle aspettative. Quindi, quello che è importante non è solo cosa la banca centrale annuncia, ma anche come.
Molti interessanti articoli accademici recenti usano i software di analisi del testo per contare termini e frasi “da falco” e “da colomba” e dare un punteggio complessivo al tono di comunicati e discorsi, analizzandone l’impatto sulla reazione dei mercati e dell’economia.
La comunicazione della Bce
La decisione di mercoledì della Bce è un punto di svolta non tanto per le azioni annunciate (ampiamente previste), ma proprio per il tono, particolarmente aggressivo, sulla posizione futura dell’istituto di Francoforte.
La decisione annunciata è un aumento dei tassi e, a partire da marzo, l’inizio della “stretta quantitativa”, la riduzione nella quantità dei titoli in pancia alla banca.
Inoltre, Christine Lagarde ha annunciato altri aumenti nei prossimi mesi («l’aumento di oggi non è abbastanza»), e insistito almeno due volte sul fatto che la Bce non ha intenzione di deviare dalla politica aggressiva contro l’inflazione finché non avrà raggiunto il proprio obiettivo del 2 per cento (al momento si prevede che dovrebbe succedere nel 2025).
Insomma, di fronte a chi suggeriva che nel contesto attuale di elevata incertezza e di rallentamento dell’attività economica, la Bce avrebbe potuto adottare un approccio più neutro e attendista, la Banca ha risposto legandosi le mani in una politica rigorista almeno per tutto il 2023.
Non è dunque una sorpresa che dopo la conferenza stampa le tensioni sui mercati finanziari si siano subito fatte sentire. Lo spread tra i tassi italiani e tedesco è aumentato in due giorni di circa 50 punti base.
Un aumento così non si vedeva dal marzo 2020, dopo la maldestra dichiarazione di Lagarde in piena pandemia (poi ritrattata) che la Bce non doveva occuparsi degli spread.
A Francoforte non ci vogliono male
Si tratta di effetti molto probabilmente temporanei, destinati ad essere riassorbiti. Gli spread salgono dall’inizio dell’anno, ma sono ancora a livelli assolutamente ragionevoli.
Tuttavia, il balzo nei rendimenti ha provocato in casa nostra alcune reazioni un po’ scomposte.
Tassi d’interesse più alti e minori acquisti di titoli stanno ad indicare il venir meno dell’ombrello della Bce sul debito pubblico dei paesi membri.
Per alcuni questa è una buona notizia, perché l’Italia finalmente non avrà più alibi per la propria indisciplina di bilancio e dovrà rimettere a posto i conti.
Per altri, tra cui il ministro della Difesa Guido Crosetto, questo è un «regalo» della Bce che vuole limitare tramite lo spread lo spazio di manovra del nuovo governo.
Entrambe le posizioni sembrano ingiustificate. Intanto, perché nonostante i pregiudizi diffusi, l’Italia non è indisciplinata. Se non si contano le spese per interessi - eredità tossica di un’altra era - dal 1999 l’Italia è seconda solo alla Germania per avanzi di bilancio; e dal 2010 siamo il paese più “virtuoso” (se è virtù avere un settore pubblico che rinuncia a spingere l’economia per due lustri di economia stagnante): è la qualità, non la quantità, della spesa pubblica italiana che pone problemi.
Poi, perché la tesi per cui la politica monetaria restrittiva aiuterebbe a disciplinare governi farfalloni non funziona e non ha funzionato. Si pensi al 2012, quando l’aumento degli spread e la speculazione, nonostante le (o a causa delle?) politiche d’austerità del governo Monti, misero in ginocchio l’Italia e costrinsero Mario Draghi al whatever it takes.
È lecito supporre che l’ultima cosa che la Bce oggi vorrebbe fare è causare per motivi politici una crisi del debito italiano, per poi dover intervenire a salvare l’euro dal collasso.
Rigore ingiustificato
Il vittimismo di certi commenti è quindi fuori luogo. Ma questo non vuole dire che la Bce fa bene a persistere nella politica restrittiva, rilanciando anzi con dichiarazioni particolarmente bellicose.
Le decisioni e gli annunci di giovedì sembrano non prendere adeguatamente in considerazione diversi fattori. In primo luogo, l’inflazione sembra essere vicina al picco e tutti (compresa la Bce) vedono un calo dell’impatto dei prezzi energetici nel 2023.
In queste condizioni, sarebbe giustificato continuare a stringere se la domanda avesse preso il testimone come determinante dell’inflazione. Non è il caso.
La domanda gioca un ruolo non trascurabile in alcuni settori, come i servizi, ma non abbastanza per mettere in moto una spirale inflazionistica.
Lo stesso può dirsi per i mercati del lavoro, che sono sorprendentemente (visto il contesto) in buona salute. Ma gli aumenti salariali non sono tali da far temere una spirale prezzi-salari.
Al contrario, i salari reali stanno crollando, cosa che, è utile sottolinearlo ancora con forza, dovrebbe essere il problema principale; questo contribuirà nei prossimi mesi a far rallentare la domanda.
In secondo luogo, la Bce sembra trascurare, nella propria strategia, il fatto che tutto questo avviene per dinamica propria, su cui le decisioni di politica economica nel breve periodo hanno un impatto trascurabile.
La letteratura economica si accorda infatti sul fatto che gli effetti della politica monetaria sull’economia si fanno sentire tra i 12 e i 18 mesi.
Quindi, le decisioni di questa settimana saranno visibili a partire dall’autunno prossimo, quando la dinamica propria dei prezzi avrà già fatto il suo corso.
Siamo sicuri che, in queste condizioni, “spezzare le reni all’inflazione” anche a prezzo di aggravare la probabile recessione dei prossimi mesi, debba essere la priorità?
Non sarebbe meglio fare una pausa e attendere se e come le dinamiche descritte sopra si confermeranno o meno, prima di continuare in una strategia restrittiva che non ha giustificazioni solide?
La credibilità della Bce
La comunicazione è anch’essa uno strumento di politica economica. La Bce manda in questo momento segnali molto confusi, da un lato dicendo che deciderà mese per mese, basandosi sui dati; dall’altro, legandosi le mani e affermando che ci saranno sicuramente altri aumenti dei tassi.
Il tutto su sfondo di previsioni macroeconomiche che (per la Bce come per tutti gli istituti di previsione) hanno margini d’errore amplissimi.
Impegnarsi in una politica restrittiva a medio termine è nelle intenzioni della Bce un modo di rafforzare la propria credibilità.
Il rischio è che questa credibilità venga fatta a pezzi se nei prossimi mesi l’evoluzione dell’economia obbligherà ad una marcia indietro. Non agire a volte può essere meglio, per la credibilità e l’efficacia della politica economica, che fare le scelte sbagliate.
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