- In pochi mesi si è passato da aspettative di crescita sostenuta, al timore di un revival degli anni Settanta con l’inflazione fuori controllo, e ora al rischio recessione.
- Tuttavia, se si guarda alle previsioni ufficiali, nel 2023 la crescita delle economie occidentali dovrebbe tornare vicino al trend e l’inflazione sotto controllo. Una situazione che ci dovrebbe rendere scettici rispetto alle previsioni macroeconomiche.
- “Recessione” e “bear market” sono concetti chiari ma indefinibili: possiamo classificarli tali solo a posteriori.
In pochi mesi si è passato da aspettative di crescita sostenuta, al timore di un revival degli anni Settanta con l’inflazione fuori controllo, e ora al rischio recessione. Tuttavia, se si guarda alle previsioni ufficiali, nel 2023 la crescita delle economie occidentali dovrebbe tornare vicino al trend e l’inflazione sotto controllo. Una situazione che ci dovrebbe rendere scettici rispetto alle previsioni macroeconomiche.
“Recessione” e “bear market” sono concetti chiari ma indefinibili: possiamo classificarli tali solo a posteriori. Una definizione spesso utilizzata vuole che due trimestri di crescita negativa fanno una recessione, e una caduta di almeno il 20 per cento della borsa, per almeno tre mesi, fa un bear market. Ma non è a questi numeri che facciamo riferimento oggi.
Di fronte a una prospettiva radicalmente diversa da quelle attese fino a poco fa, a nessuno importa se l’attività cade per due trimestri o uno solo, o rimane stagnante per tre; né che i titoli perdano il 19 o il 23 per cento: è l’incertezza a condizionare la psicologia collettiva, da cui dipendono le scelte di consumo e investimento.
Analogamente, non si ha inflazione quando la crescita dei prezzi supera il 2 per cento, l’obiettivo delle banche centrali, ma se comincia a erodere sensibilmente il potere di acquisto dei salari.
Aspettative confuse
Le politiche monetarie e fiscali dei maggiori paesi non sono state in grado di ancorare le aspettative di inflazione né di attutire gli shock reali, contribuendo in qualche caso ad aumentare l’incertezza.
Negli Stati Uniti, la Federal Reserve ha reagito al crollo della domanda causato dalla pandemia con acquisti di titoli senza precedenti e l’azzeramento dei tassi di interesse; e negli ultimi due anni il Tesoro ha triplicato il disavanzo federale.
L’ingente liquidità immessa nell’economia, insieme al rapido sviluppo di vaccini efficaci, ha avviato alla crescita molto più rapida e forte di qualsiasi previsione. A questo, la Fed ha reagito tardivamente, lasciando che si creassero un eccesso di domanda di beni e servizi e piena occupazione che ha spinto al rialzo salari e listini.
L’aumento dei tassi è arrivato a inizio maggio, la riduzione dei titoli in portafoglio è attesa per giugno. Ma c’è grande incertezza e confusione su come la Fed procederà da qui in avanti, e con quanta determinazione perseguirà l’obiettivo del 2 per cento, al di là delle dichiarazioni di prammatica.
Un recente sondaggio tra economisti ha mostrato una grande dispersione di aspettative sul tasso dei Federal Funds a fine 2023, con una mediana di 2,8 per cento (vicina al 2,7 del mercato futures): in media nessuno si aspetta dunque che la Fed spinga i tassi oltre l’inflazione per il periodo necessario a ridurla dal’8,2 per cento di aprile.
Non è quindi una stretta monetaria che possa provocare recessione e bear market. La causa è una combinazione di fattori che si autoalimentano: l’effetto ricchezza della caduta della borsa (che negli Usa ha effetti pervasivi, data l’esposizione alle azioni dei risparmiatori e del sistema previdenziale); l’impatto del forte rialzo dei mutui sul settore immobiliare, dopo anni di boom; la compressione dei salari reali e l’aumento delle insolvenze delle piccole/medie imprese per via delle peggiorate condizioni del credito.
Tutti fattori che dipendono prevalentemente dal comportamento delle famiglie in tema di consumi, case e investimenti in borsa, e dalla loro percezione dell’inflazione.
Dipende dai consumatori
Per le grandi aziende quotate, gli analisti si attendono margini operativi che crescono quest’anno e il prossimo, e superiori al 2019; utili in rialzo del 10 per cento; fatturato che rallenta ma rimane in crescita al 5 per cento nel 2023; e l’indagine sulle imprese mostra una continua espansione, in rallentamento rispetto al picco del 2021, ma ancora su livelli superiore a prima della pandemia. Crolla invece la fiducia dei consumatori, che in aprile era molto al di sotto del 2019.
La possibilità di recessione e bear market (fenomeni non necessariamente correlati) è pertanto reale, ma dipende più dai consumatori che dalle imprese, grazie alla solidità di loro conti e struttura finanziaria. Il rischio diminuirà pertanto se nei prossimi mesi ci sarà un graduale ma costante rallentamento della dinamica dei prezzi. Fino ad allora, perdureranno volatilità nei mercati e timori di recessione.
Simili, ma solo in apparenza, i rischi per l’Eurozona. Anche da noi Bce e governi si sono imbarcati in una espansione monetaria e fiscale senza precedenti per fronteggiare il Covid, ma non si è creato lo stesso eccesso di domanda degli Usa, né le stesse spinte salariali per via delle diverse condizioni del mercato del lavoro.
C’è però anche più confusione sugli obiettivi di politica monetaria: dopo aver ripetuto alla noia che non erano previsti aumenti di tassi fino a fine 2022, perché l’inflazione era temporanea, ora Christine Lagarde, presidente della Bce, anticipa due rialzi da 0,25 per cento prima dell’autunno; ma non passa giorno senza dichiarazioni contrastanti da parte di altri membri della Bce, anche con richieste di un aumento subito di 0,5. E il mercato dei futures ormai sconta rialzi di quasi 1 punto di qui a fine anno. Sulla traiettoria nel 2023, nessuno si pronuncia.
Confusione e incertezza sono dettate soprattutto dal fatto che il rischio inflazione e recessione nell’eurozona è dovuto a shock reali, contro i quali la politica monetaria può ben poco.
Il primo è la crisi energetica dove l’Europa vorrebbe perseguire tre obiettivi in conflitto, come già argomentato su queste colonne: attenuare il caro energia e il suo impatto economico; ridurre la dipendenza energetica dalla Russia; e transitare alle energie rinnovabili.
Il secondo è la politica zero Covid della Cina che ha pesanti ripercussioni sull’export di prodotti di punta dei paesi euro (lusso, auto, impiantistica) e mette in crisi le filiere di produzione che sono parte integrante dell’industria europea.
Il terzo è l’assenza di coordinamento delle politiche fiscali, che espone l’area a ricorrenti crisi finanziarie del debito, che poi diventano un rischio sistemico per l’economia.
Cosa rischia l’eurozona
Si sa da sempre che le unioni monetarie sono a rischio in caso di shock reali asimmetrici: rischio scongiurato da un intervento straordinario della Bce sia nel 2011-12, sia nel 2020 col Covid.
Oggi, un intervento straordinario non sarebbe più ipotizzabile, nè sarebbe risolutivo a fronte di problemi reali che solo una politica fiscale coordinata tra i paesi dell’unione può affrontare.
Il Pnrr è stato un primo passo, importante, nella giusta direzione. Per questa ragione sono estremamente preoccupanti i recenti richiami all’austerità da parte tedesca, come lo sono da parte nostra le ostruzioni alle riforme richieste dal Prnn di molte forze politiche, in ottica pre elettorale, o il revival di dichiarazioni anti Europa e a favore di spesa pubblica clientelare.
Un indicatore dei timori del mercato viene dai titoli delle banche dell’eurozona, maggiormente sensibili ai rischi recessione e crisi del debito: gli analisti stimano infatti anche per il 2023 un rapporto medio tra valore di borsa e patrimonio tangibile di appena 0,59, inferiore al dato pre-Covid, e la metà delle banche americane. Il rischio recessione per l’area euro è quindi più alto che negli Usa, anche perché gli effetti degli shock reali, purtroppo, hanno vita lunga.
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