- Il rischio di inflazione, un persistente eccesso di domanda rispetto all’offerta che provoca aumenti generalizzati dei prezzi, innescando le aspettative in un meccanismo che si autoalimenta, era prevalente fino a pochi mesi fa.
- Ora, invece, il rischio sembra essere la stagflazione: un aumento dei prezzi spinto dal lato dei costi, insieme a un rallentamento dell’attività economica.
- Lo scenario più probabile non è pertanto la stagflazione ma uno di crescita economica duratura dove i prezzi però crescono stabilmente al di sopra del 2 per cento, senza però accelerare in picchi di inflazione, o innescare un aumento nelle aspettative.
Nel giro di un paio di mesi siamo passati dal timore dell’inflazione e quello della stagflazione. E dalle verdi praterie delle energie rinnovabili alla crisi energetica globale. Un cambiamento repentino che rammenta l’inaffidabilità delle previsioni e delle analisi a fronte di shock imprevisti come la pandemia.
Il rischio di inflazione, un persistente eccesso di domanda rispetto all’offerta che provoca aumenti generalizzati dei prezzi, innescando le aspettative in un meccanismo che si autoalimenta, era prevalente fino a pochi mesi fa: forte ripresa dei consumi grazie alle vaccinazioni e alla liquidità accumulata durante la pandemia; aumento delle produzioni e del commercio internazionale per ricostituire le scorte e soddisfare la domanda; politiche di bilancio espansive anche negli anni a venire per sostenere i redditi e finanziare investimenti pubblici; e banche centrali che mantengono a lungo tassi reali negativi.
Le banche centrali, e in particolare la Bce, ritengono che gran parte dell’accelerazione dei prezzi sia transitorio, destinato a rientrare autonomamente vicino al livello obiettivo del 2 per cento, senza bisogno di un aumento dei tassi ancora per molto.
Il rischio di questo scenario è che l’aumento dell’inflazione inneschi il circolo vizioso delle aspettative, obbligando la politica monetaria a una stretta più avanti potenzialmente recessiva e capace di causare una crisi finanziaria dato l’elevato livello del debito.
Prezzi alti, crescita bassa
Ora, invece, il rischio sembra essere la stagflazione: un aumento dei prezzi spinto dal lato dei costi, insieme a un rallentamento dell’attività economica.
Si teme una riduzione della crescita dei consumi per via della variante delta. Ma i rischi maggiori vengono dal lato dell’offerta: ridotta capacità dei porti e del trasporto container; scarsità di manodopera in certi settori (per esempio, i camionisti); maggiori costi e disfunzioni nella logistica.
C’è poi la carenza di chip e semiconduttori che ha messo in crisi l’industria automobilistica ed elettronica, mettendo a nudo la dipendenza da pochi produttori asiatici e i rischi insiti nelle lunghe catene di produzione comuni a molti settori.
Si aggiunga il rallentamento strutturale della crescita cinese, per anni locomotiva del mondo, causato dallo spostamento di risorse imposto da governo, dai servizi per i consumatori ai beni industriali e dalla produzione di software all’hardware; la volontà di ridurre l’integrazione con l’Occidente; l’aumento delle imposte per finanziare il welfare; l’invecchiamento della popolazione; e soprattutto la crisi immobiliare, non tanto per le contenibili ricadute finanziarie ma perché il settore delle costruzioni e dei servizi immobiliari rappresentano il 29 per cento del Pil, contro il 18 medio in Occidente.
Da ultimo la crisi energetica che in sei mesi ha spinto i prezzi a livelli impensabili: +30 per cento il petrolio (Brent), +170 il carbone australiano, +120 il gas americano, +400 quello europeo e quello liquefatto in Asia. Le tante pressioni dal lato dei costi riducono i margini delle imprese, che cercano di trasferirli sui prezzi; aumenti che innescano le richieste di aumenti salariali alimentando il ciclo vizioso della stagflazione.
Le armi spuntate
È lo scenario peggiore per le banche centrali perché i loro strumenti - tassi e liquidità - possono controllare l’inflazione da eccesso di domanda, non quella da costi. Il rischio, dunque è la stagflazione: l’economia rallenta pur in presenza di prezzi crescenti. Rischio che aumenta se le banche centrali, sbagliando, aumentassero i tassi per contrastare l’aumento dei prezzi. Un rischio tuttavia che ritengo improbabile.
I progressi coi vaccini e con gli antivirali, il desiderio di consumi troppo a lungo repressi, la capacità di convivere col Covid, le ampie disponibilità di risparmi per molte fasce della popolazione e il forte sostegno al reddito della classe media e al welfare che tutti governi continueranno a fornire, garantiscono il livello della domanda.
Alcuni fattori dal lato dell’offerta, come le disfunzioni del mercato del lavoro e nella logistica o i colli di bottiglia nelle catene di produzione sono dovuti a una ripresa della domanda superiore alle attese dopo il Covid e alla mancanza di scorte, e destinati a riassorbirsi nel tempo.
Le banche centrali, al di là delle dichiarazioni, manterranno a lungo i tassi di interesse al di sotto dell’inflazione indispensabile per smaltire senza crisi il debito accumulato: si stima che quello mondiale (pubblico e privato) sia salito dal 220 del Pil nel 1999 all’attuale 360 (420 nel mondo occidentale).
Catene produttive e prezzi
Ci sono però tre fattori che causeranno un aumento strutturale e stabile dell’inflazione. Primo, con l’accorciamento delle catene di produzione e il venir meno della Cina come manifattura a basso costo, viene anche meno il principale elemento di stabilità dei prezzi degli ultimi 20 anni. Secondo, ci vorranno anni o forse più per ridurre il gap tecnologico e quindi la dipendenza dai produttori asiatici per la produzione di input cruciali come i semiconduttori o le batterie ricaricabili, rimanendo vulnerabili a shock dell’offerta. E, terzo, è finita l’era delle fonti energetiche abbondanti e a basso costo.
Un errore è stato quello di puntare a una transizione rapida e totale all’elettricità verde, senza preoccuparsi dei costi di transizione. Un’indicazione che ha portato a massicci tagli degli investimenti nelle fonti tradizionali: si calcola per esempio che questi investimenti nel mondo siano crollati del 70 per cento dal picco del 2014, e del 75 il numero di piattaforme petrolifere negli Usa.
Un secondo errore è stato quello di guardare unicamente alla riduzione dei costi delle rinnovabili, perché il prezzo rilevante è quello della fonte marginale, che eguaglia l’offerta alla domanda.
Le rinnovabili non potranno mai esserlo perché la quantità di vento e sole è aleatoria e mancano le batterie capaci di accumulare l’elettricità verde e le reti intelligenti per distribuirla.
Invece di mantenere un sistema flessibile con diverse fonti energetiche alternative capace di ammortizzare gli shock, si è pensato solo a tagliare carbone, petrolio e nucleare.
Così, oggi, l’Europa dipende dal gas russo, la Cina dal carbone australiano, Giappone e Corea dal gas liquido americano, e i tagli nello shale oil negli Usa hanno ridato potere all’Opec. Soluzioni a breve come razionamenti, sussidi, blocco dei prezzi, tasse su extraprofitti, farebbero solo danni.
Un ritorno a un sistema energetico più flessibile non è politicamente percorribile. Anche se parte della recente impennata dei prezzi ha natura speculativa, destinata a rientrare, il costo dell’energia costituirà un elemento aggiuntivo di costo e di inflazione strutturale.
Lo scenario più probabile non è pertanto la stagflazione ma uno di crescita economica duratura dove i prezzi però crescono stabilmente al di sopra del 2 per cento, senza però accelerare in picchi di inflazione, o innescare un aumento nelle aspettative.
Questo a patto che le banche centrali prendano atto delle mutate condizioni di offerta e rinuncino, al di là della retorica ufficiale, al dogma del 2 per cento; anche perché c’è da smaltire il tanto debito accumulato.
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