- L’assenza di leadership costituisce una debolezza evidente del movimento: prima o poi, lo spontaneismo senza organizzazione lascia spazio a stanchezza oltre che alla divaricazione delle motivazioni mobilitanti.
- Necessità e fase, inducono il regime a tentare di fermare la rivolta, alternando repressione e inclusione controllata. Offrendo agli oppositori un’ultima chance in cambio della loro neutralizzazione politica.
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Le donne - che oggi costituiscono la maggioranza di chi ha una laurea e occupano posti di responsabilità nella società e nel sistema politico - sono, infatti, il vero motore del mutamento sociale: anche sul delicato terreno della privatizzazione della religione.
A che punto è la rivolta in Iran? Recenti avvenimenti mandano segnali da decrittare attentamente. Perché mostrano la strada imboccata dal regime per “sopire e troncare” la protesta e , allo stesso tempo la prevedibile fase di debolezza attraversata da quest’ultima.
Dopo che l’ayatollah Ai Khamenei ha annunciato, nei primi giorni di febbraio, in occasione del quarantaquattresimo anniversario della vittoria della Rivoluzione islamica, un provvedimento di grazia che riguarda anche parte dei ventimila arrestati durante le manifestazioni di protesta, si sono cominciate a aprire le porte delle prigioni.
Sono riuscite a varcarle anche detenute eccellenti: l’antropologa Abdelkhah, la sociologa Mosheni, la giornalista Jafari, oltre che un certo numero di attiviste per i diritti umani.
In Iran è consuetudine concedere amnistia e indulto in occasione di festività di particolare rilievo religioso e politico. Nella circostanza, la scelta ha anche lo scopo di decongestionare il sovraffollato circuito carcerario, intasato dagli arresti per reati politici.
Un ammorbidimento, quello del regime, che risponde a una precisa necessità e sfrutta un particolare momento.
Da un lato, la presa d’atto che la repressione non riesce, da sola, a venire a capo del conflitto; dall’altro, la relativa calma prodotta, nelle ultime settimane, dall’attenuarsi della rivolta che, senza leadership e “impolitica” nelle intenzioni di molti dei suoi protagonisti, non riesce non solo a diventare rivoluzione ma nemmeno a tenere a lungo la piazza.
L’assenza di leadership costituisce una debolezza evidente del movimento: prima o poi, lo spontaneismo senza organizzazione lascia spazio a stanchezza oltre che alla divaricazione delle motivazioni mobilitanti.
I rivoltosi che invocano la fine del regime non hanno una guida strutturata, né cercano sponde nel “sistema” (la Repubblica Islamica è un’oligarchia di fazioni, più che un campo dominato da un sola di esse): ai loro occhi neanche la componente riformista, storicamente fautrice dell’inclusione degli attori sociali più eterodossi, è un interlocutore.
Difficilmente, però, i protagonisti di questo movimento senza nome – “donne, libertà, vita” è il suo slogan più noto ma, a conferma della sua indeterminatezza, non esiste termine che lo renda riconoscibile –, possono identificarsi nel tentativo della diaspora iraniana negli Usa di restaurare la dinastia Pahlavi.
Per quanto l’attuale regime sia inviso, un ritorno al passato sarebbe difficilmente digeribile per un paese che conserva acuta memoria del sanguinoso autoritarismo dell’ultimo shah.
Il pendolo della repressione
Necessità e fase inducono, dunque, il regime a tentare di fermare la rivolta alternando repressione e inclusione controllata. Offrendo agli oppositori un’ultima chance in cambio della loro neutralizzazione politica.
“Magnanimità” che si spinge sino a stabilire che le condanne per i fatti legati alle proteste non impediranno ai graziati non recidivi di lavorare per le amministrazioni pubbliche. Linea emersa già nel significativo discorso di inizio anno di Khamenei.
Consapevole della difficoltà di reprimere un movimento in cui le donne sono in prima fila, la Guida suprema ha affrontato, nella circostanza, questioni come il loro ruolo sociale e l’uso dell’hejab. Cercando di mostrarsi meno rigido nei confronti della sempre più numerosa, istruita e influente, componente femminile della società iraniana.
Richiamandosi a Khomeini – che agli albori della Rivoluzione aveva affermato che le donne, purché velate, potevano fare politica – la Guida ha auspicato una loro maggiore partecipazione alla vita pubblica.
Cambio di linea anche semantico: le donne che non indossano correttamente il velo sono state definite non più «malvelate», categoria stigmatizzante, ma cultrici de «l’hejab debole».
Esse sono pur sempre “ le nostre madri e le nostre mogli”, ha chiosato la Guida. Considerarle automaticamente «contro la religione o la Rivoluzione islamica», non è corretto: esse vanno «educate» ai valori religiosi, ha ribadito il leader supremo.
Posizione che non intacca il principio dell’obbligatorietà del velo e rilancia la funzione etica del clero e delle famiglie. Messaggio rivolto anche ai settori più oltranzisti dello schieramento chierico-conservatore, dentro e fuori le istituzioni.
Sottolineare che la richiesta del provvedimento di grazia è venuta dalla magistratura, che dipende dalla stesso Khamenei e ha sin qui usato la mano pesante con chi protesta, consente alla Guida di mostrarsi sopra le parti ed esercitare quella funzione di armonizzante perno gerarchico del “sistema” che la costituzione della Repubblica Islamica le affida.
Khamenei restituisce anche ai giudici la centralità nel controllo dei costumi che era stata loro sottratta dalla nascita della polizia morale voluta dall’ex presidente Ahmadinejad, convinto fautore della superiorità degli organismi rivoluzionari su quelli istituzionali.
Le studentesse avvelenate
Seppure ambiguamente - ed evitando così di scoperchiare i labirinti dello “stato profondo”, nel quale si muovono membri delle milizie e appartenenti alla destra radicale, uso a intervenire nei momenti, e nelle situazioni, in cui il “sistema” non può agire apertamente - il regime ha ammesso che gli avvelenamenti che da novembre hanno colpito le scuole della città santa di Qom sono opera di persone che hanno intenzionalmente voluto colpire le studentesse per impedire che vadano a scuola.
Riemerge, così, drammaticamente, un’annosa e, un tempo, divisiva questione: quella dell’istruzione femminile, incoraggiata negli anni Novanta dall’allora presidente della Repubblica e leader della corrente tecnocratica e Alì Rafsanjani che, in quella scelta, vedeva uno strumento di modernizzazione del paese.
Messaggio recepito sin troppo bene dalle frange estreme dei conservatori, per nulla favorevoli alla decisione, che, a ragione, temevano che la scolarizzazione avrebbe prodotto secolarizzazione e, a lungo andare, opposizione politica.
Le donne - che oggi costituiscono la maggioranza di chi ha una laurea e occupano posti di responsabilità nella società e nel sistema politico - sono infatti il vero motore del mutamento sociale: anche sul delicato terreno della privatizzazione della religione.
Non è un caso che protagoniste della rivolta contro il velo obbligatorio siano le sorelle minori o le figlie di quella generazione istruita. E che esse continuino a cimentarsi in rilevanti sfide simboliche ed eclatanti forme di disobbedienza civile.
Nonostante l’affievolimento della protesta, molte donne, in particolare a Teheran, circolano senza velo.
Per protestare contro la norma che impedisce a chi non lo indossa correttamente di candidarsi ai posti di vertice degli organismi professionali, una di loro si è tolta l’hejab durante una riunione dell’ordine degli ingegneri, scagliandolo a terra e lasciando la sala tra gli applausi. Scena, ripresa e divenuta virale, impensabile sino a poco tempo fa.
Prima del collasso
Pragmaticamente, la Guida sembra puntare a non irrigidire la tensione. Forse l’ultima chance prima che tutto collassi.
Privo di legittimità, il clero conservatore è, ormai, costretto a affidare la propria sopravvivenza agli apparati della forza, in particolare ai Pasdaran. Lealtà che potrebbe non durare se la crisi precipitasse o la successione di Khamenei si imponesse. In tal caso i Guardiani della Rivoluzione potrebbero gestire direttamente il potere.
La Repubblica islamica sopravviverebbe, così, nella forma pura di potere militare alfiere del rinato nazionalismo farsi.
Anche per evitare una simile, traumatico, passaggio di consegne, il clero conservatore punta a svolgere un ruolo di primo piano nello sconfiggere i rivoltosi.
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