La vicenda del riservista israeliano ucciso per errore dopo aver fermato due terroristi racconta della pericolosa cultura delle armi fra i civili che intossica la società
La reazione del premier Benjamin Netanyahu alle sequele dell’attentato di Gerusalemme è stata: “Così è la vita”, scatenando una ridda di reazioni e di proteste. Ma è proprio ciò a cui Israele si sta preparando nel clima infuocato del post 7 ottobre. Il fatto è noto: Yuval Doron Castleman, un civile armato che aveva reagito per primo all’attentatore palestinese, è stato ucciso da due soldati accorsi subito dopo, che lo hanno scambiato per un terrorista benché lui avesse gettato l’arma, si fosse messo in ginocchio e stesse gridando in ebraico di non sparare.
Al netto del fatto che possono non averlo sentito, il fatto grave è che ormai si abbatte regolarmente anche un disarmato. È già accaduto con i palestinesi tante volte. La politica del ministro estremista Ben Gvir sta moltiplicando i proseliti: si distribuiscono armi ai civili che ormai vanno in giro quasi tutti armati, anche contro il parere dell’esercito. Il modello è quello dei coloni di Cisgiordania.
Per questo la soluzione dei due stati diventa sempre più un miraggio: ripetuta come un mantra dai politici occidentali, serve soprattutto come retorica benché la sua applicazione divenga sempre più aleatoria. Il disastro dell’atroce pogrom del 7 ottobre è stato un ulteriore messaggio agli israeliani: «Armatevi perché la miglior difesa è quella vostra personale… nessuno può difendervi al vostro posto».
Per questo il primo ministro dice “è la vita”: è proprio la vita a cui Israele si sta abituando. Nessuno si fida più di niente e tutti puntano solo sulla difesa personale. Chi pensa di non farcela se ne va: è una cosa davvero singolare vedere israeliani che usano il loro secondo passaporto per compiere il cammino inverso o almeno per farlo fare alle proprie famiglie.
È vero che migliaia di israeliani che stavano all’estero sono tornati per arruolarsi ma è anche vero che da sud e da nord decine di migliaia di persone sono sfollate verso il centro del paese ed stanno cercando soluzioni alternative. Hezbollah fa paura e cittadine come Kiryat Shmona o Metulla si sono svuotate.
Molti israeliani sono riparati a Cipro in attesa di tempi migliori. La guerra incombe e si vedono nemici ovunque, non esitando a sparare per uccidere: una sindrome all’americana aggravata dal fatto che i palestinesi sono milioni, senza contare gli arabo-israeliani che già l’anno scorso si erano ribellati.
Il guaio sono le pessime conseguenze che ciò provoca nella relazione tra esercito e cittadini: se questi ultimi sentono di doversi difendere da soli ciò può causare una frattura con l’esercito, fino ad ora considerato la vera difesa di Israele. Peggio ancora: potrebbe provocare una incrinatura all’interno dell’esercito stesso.
La politica seguita in questi ultimi anni dalla destra israeliana, fatta di segregazione e suprematismo, ha portato la società ad arroccarsi e a dividersi internamente. Le manifestazioni anti Netanyahu dei mesi prima del 7 ottobre non sono state dimenticate. Ora si è in guerra ma le divisioni riappaiono già alla luce del sole.
La polemica sulla tregua e sulla liberazione incompleta degli ostaggi continuano, tra la spinta delle famiglie e la logica delle operazioni militari. Netanyahu continua a ripetere “sradicheremo Hamas”, ma sono in pochi ormai a credergli. Tra l’altro Israele rischia di alienarsi l’unico alleato sicuro che ha: gli Stati Uniti di Joe Biden. L’attuale compagine di governo punterebbe a continuare la guerra e stare al proprio posto fino alle elezioni americane, sperando nella vittoria di Donald Trump.
Ma si tratta di un periodo troppo lungo, mentre la società israeliana vuole andare presto alle urne per cambiare governo. L’altro dilemma è quanto sia ancora difficile intravvedere un soggetto politico palestinese con il quale eventualmente riprendere il dialogo politico interrotto dai governi Netanyahu.
Tra una Hamas divisa in fazioni (ma anche respinta come interlocutore), una al Fatah composta da almeno tre correnti, la Jihad islamica e altri partiti minori, i gruppi palestinesi sono molti, rissosi e spesso senza legittimità. In Cisgiordania e a Gaza nessuno vuole andare ad un nuovo voto, temendo che Hamas possa risultare l’assoluta vincitrice.
Ciò che serve con urgenza è abbassare le tensioni interne a Israele, offrendo a Netanyahu una via di uscita onorevole e garantita (contro le accuse mosse dai tribunali), costruendo nel contempo una nuova coalizione di centro che includa una parte della destra, quella disposta a ricominciare a fare politica. Con una nuova maggioranza Israele potrebbe riflettere con maggior lucidità sul futuro della guerra e sui rischi connessi.
Non esiste ancora una strategia per il dopoguerra che invece è urgente e necessaria. Infine sarà anche indispensabile accettare di confrontarsi con la controparte che i palestinesi avranno nel frattempo costruito, senza pretendere di dettarne la composizione. Solo così si potrà avere una tregua stabile che prometta di trasformarsi in un nuovo dialogo di pace. È il primo passo per un lungo viaggio che coinvolgerà tutti.
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