Le manifestazioni a cui assistiamo in queste settimane impongono alla nostra attenzione un’intersezione culturale, che si sta sempre più tramutando in un tema politica del nostro tempo
È ormai un luogo comune, la nostra epoca, anche in virtù delle conseguenze della rivoluzione tecnologica sulle modalità di comunicazione, tende alla polarizzazione e alla schematizzazione. Capita, così, di ritrovarsi in categorie da cui ci sente lontanissimo a causa di un proprio intervento pubblico, che sia un articolo, una conferenza o l’intervento ad un convegno.
Poco male, il tasso di inflazione comunicativa raggiunto rende anche l’insulto più ostile del tutto irrilevante. Anche la cosiddetta gogna social offre, però, lo spunto per ulteriori approfondimenti.
Nel denunciare i rischi di penetrazione di propagande organizzate da parte di gruppi pre-moderni che ben sanno quali tasti premere per accreditarsi, volevo mettere l’accento su un’intersezione culturale che sta segnando il nostro tempo e che sempre più si profila come tema politico dei prossimi anni.
Intersezione, che poggia anche su una grande contraddizione perché, partendo dall’appoggio alle rivendicazioni identitarie dei popoli oppressi dal passato coloniale occidentale, vede il mondo progressista europeo, persino woke, prendere le parti di gruppi fondamentalisti ostili alle donne, ai diritti Lgbtq+, portatori di visioni gerarchiche, patriarcali e anti-libertarie.
In sostanza, supportando le istanze di emancipazione dei soggetti storicamente (e attualmente) oppressi, si finisce con l’accreditare movimenti tradizionalisti che spesso, come ci hanno insegnato le speranze tradite riversate sulle primavere arabe, sono gli unici ad avere una struttura politica in grado di porsi come potere alternativo ai governi al comando.
Nessuna censura del mondo woke, che anzi contiene delle cariche di emancipazione sociale a cui non si può restare indifferenti.
Equilibri che cambiano
Il tema delle politiche di genere, in cui nascono pensieri nuovi rispetto al pensiero della differenza a cui tanto tutte e tutti dobbiamo, mi pare l’esempio più significativo di un capitale sociale da non disperdere.
Così come nessuna condanna è rivolta al pensiero post e de-coloniale, che anzi ripropone in grande stile un binomio cultura-politica che dalle nostre parti si rimpiange da tempo con nostalgia.
Si tratta, però, di un’intersezione da monitorare con attenzione perché non solo può favorire i rischi appena denunciati, ma sta anche modificando radicalmente le nostre istituzioni sovranazionali, un tempo espressione della cultura (e degli interessi) occidentali, oggi sempre più strumento politico per portare avanti, attraverso il canale umanitario utilizzato ad intermittenza, una battaglia revanscista contro l’occidente oppressore.
Così, possiamo avere un Sudafrica che da una parte adisce la Corte di Giustizia Internazionale contro Israele, inteso come longa manus dell’imperialismo occidentale secondo tradizionale retorica araba, dall’altra invita Putin con tutti gli onori a Pretoria per poi dover ripiegare su collegamento da remoto perché, piccolo particolare, è messo in stato d’accusa dalla Corte Penale Internazionale.
Un mutamento degli equilibri che certamente sarà un grande tema politico e geopolitico dei prossimi anni e che non credo possa essere ridotto a polemica social.
Personalmente, penso che queste forme di organizzazione politica del cosiddetto Sud globale, galassia ancora alquanto eterogenea e unita solo dalla rivolta verso l’Occidente, siano non solo comprensibili, ma anche legittime.
La paura
Penso, però, che sono processi da prendere molto seriamente e da interpretare con attenzione. Solo nei sogni dispotici di Houellebecq porteranno all’invasione islamica o ad altri scenari di cancellazione dell’Occidente.
La realtà, già ampiamente osservata in questi anni post 11 settembre, è che l’intersezione di progressismo radicale (fenomeno, ripeto, di grande interesse culturale) e rivendicazioni identitarie dei popoli oppressi traccia una traiettoria con un traguardo che ha nome e cognome: Donald Trump.
È la destra, e anche estrema, che si impossessa della paura che questo cambiamento sociale provoca. Una destra, che, quando è al potere, sfoga la sua sete di vendetta per gli anni in cui è stata tenuta ai margini anzitutto sui progressisti e su quei soggetti che, giustamente, rivendicano uno spazio tanto nell’arena globale, quanto all’interno dei nostri confini nazionali.
Piuttosto che osservare tutto con lenti ideologiche che oggi non servono più a niente, dovremmo forse riflettere insieme sui processi che rischiamo di assecondare.
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