- Nel 2023 è prevista la riattivazione del Patto di stabilità e crescita che è stato sospeso per la pandemia. Sembra abbastanza condivisa l’idea di riformarlo prima di riattivarlo, anche se non c’è accordo sulle linee di riforma.
- Nel trattare per il futuro è bene non falsificare il passato: per almeno quattro anni prima della sospensione del Patto, la finanza pubblica italiana non ha subito trattamenti “austeri”.
- La riforma dovrebbe anche migliorare le sanzioni e gli incentivi che inducono i paesi a correggere i loro disavanzi. Poiché le “multe” finora previste non sono parse applicabili e convincenti, si possono prevedere altri strumenti.
Nel 2023 è prevista la riattivazione del patto di stabilità e crescita che è stato sospeso per la pandemia. Sembra abbastanza condivisa l’idea di riformarlo prima di riattivarlo, anche se non c’è accordo sulle linee di riforma. La gran distanza fra l’entità del debito pubblico italiano e l’obiettivo del patto (60 per cento del Pil) è uno dei punti che rende delicato il raggiungimento di un accordo in proposito. Si tratta comunque, per l’insieme dell’Eurozona, di riprendere il coordinamento delle politiche di bilancio dopo due anni di disavanzi di emergenza.
Non è il caso di mirare a fare a meno del patto: sarebbe allora il nervosismo speculativo dei mercati, come nel 2011-2012, a farla da padrone. Il nostro debito ne soffrirebbe più degli altri, anche perché la sua sostenibilità verrebbe messa in dubbio anche dagli altri governi europei.
L’unica soluzione apparirebbe l’insistenza delle banche centrali nell’acquistare grandi porzioni dei debiti dei governi, facendo perdere alla politica monetaria indipendenza e controllo dell’inflazione. Gli stessi inconvenienti sorgerebbero se il patto fosse troppo debole ed elastico per avere un vero effetto di coordinamento dei bilanci pubblici o, all’opposto, se fosse troppo severo e dunque di poco credibile applicazione. Conviene dunque cercare di accordarsi su un Patto incisivo ma realistico.
Niente austerità
Nel trattare per il futuro è bene non falsificare il passato: per almeno quattro anni prima della sospensione del patto, la finanza pubblica italiana non ha subito trattamenti “austeri”. Dal 2016 al 2019 la correzione del nostro disavanzo strutturale è stata in media più di un punto percentuale all’anno inferiore a quanto richiesto dalle regole e più di mezzo punto a quanto concesso dalle clausole di flessibilità del patto. Eppure il debito è rimasto in quegli anni sopra il 130 per cento del Pil ed è cresciuto di tre punti, nonostante il costo medio dei debiti in essere sia sceso di quasi l’1 per cento.
La riforma dovrebbe anche migliorare le sanzioni e gli incentivi che inducono i paesi a correggere i loro disavanzi. Poiché le “multe” finora previste non sono parse applicabili e convincenti, si possono prevedere altri strumenti. Da tagli ai prezzi d’acquisto dei titoli del paese deviante da parte della Bce a più brutali razionamenti dell’autorizzazione a emettere sui mercati ufficiali. L’ideale sarebbe, però, potenziare i poteri dell’Ufficio parlamentare di bilancio, che è l’articolazione nazionale del Comitato europeo per le finanze pubbliche, accrescendone l’autorità sulle leggi finanziarie.
Uno degli aspetti condivisi delle idee di riforma che circolano è la semplificazione delle regole, con riferimenti esclusivamente a variabili osservabili e non a valori stimati come ora il Pil potenziale. L’obiettivo intermedio dovrebbe riferirsi al rapporto debito/Pil, per il quale andrebbe prescritta una graduale riduzione. Andrebbe però cambiata la regola che oggi richiede di ridurlo ogni anno di un ventesimo dello scarto tra debito in essere e obiettivo del 60 per cento.
Chi è più distante dovrebbe poterlo ridurre di una quota minore, così da rendere il suo impegno più sopportabile e credibile. L’obiettivo sarebbe realizzato rispettando un vincolo pluriennale alla crescita della spesa pubblica, al netto di variazioni discrezionali delle imposte. Resta da decidere che cosa fare dei valori numerici prescritti per il disavanzo (3 per cento del Pil) e il debito (60 per cento) dal Protocollo 12 al Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
Al riguardo, alcuni hanno proposto di farli semplicemente cadere, determinando paese per paese gli impegni di riduzione del debito; ma forse questa flessibilità finirebbe per ri-complicare troppo il patto, affidando la determinazione degli impegni dei singoli paesi a trattative bilaterali molto politicizzate fra la Commissione e i singoli governi.
Il nodo degli investimenti
Quasi tutti ammettono che sarebbe bene escludere dal calcolo del disavanzo o dalla spesa massima consentita alcuni “investimenti” considerati produttivi e da privilegiare da parte dell’Unione. Con ciò si potrebbero fra l’altro favorire le spese cruciali per le “transizioni” verdi e digitali, nonché alcune spese sanitarie, che caratterizzano anche i Piani di ripresa e resilienza formulati dai paesi per il dopo-pandemia. L’Italia potrebbe contribuire con proposte precise in questa direzione, sapendo che criteri credibili di selezione e monitoraggio degli investimenti richiederebbero grande rigore per essere accettati.
La riforma del patto non dovrebbe prescindere, almeno in prospettiva, da due future evoluzioni della macro-finanza comunitaria. Innanzitutto dal destino che sarà riservato ai titoli pubblici che sono nell’attivo del bilancio delle banche centrali dell’Eurosistema.
L’ideale sarebbe, dopo averne arrestato l’accumulo, escluderli dal computo dei debiti pubblici. Si può calcolare che ciò potrebbe abbassare fin d’ora il rapporto medio fra debiti pubblici e Pil dell’Eurozona di 25-30 punti percentuali – per l’Italia, da più di 150 a poco più di 120 per cento.
Si potrebbe anche ridurre il massimo debito di ciascun paese dal 60 all’80 per cento del Pil, come si può fare a Trattati invariati. In tal modo, gli obblighi di aggiustamento diverrebbero più credibili. In secondo luogo, la riforma del patto dovrebbe venir disegnata in modo da potersi in futuro adattare all’auspicabile evoluzione del bilancio comunitario che, esaurito il programma Next generation Eu, potrebbe gradualmente espandersi, centralizzando maggiori spese per beni comuni europei e, in qualche misura, le politiche di stabilizzazione del ciclo comune europeo.
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