- Il gran numero di materie (pressoché tutte) su cui si dovrebbe esercitare l’autonomia differenziata, secondo le richieste delle tre Regioni che hanno avviato il processo, comporta il serio rischio che le regioni “differenziate” si trasformino di fatto in regioni a statuto speciale.
- Se nel tempo la dinamica dei gettiti sarà maggiore di quella dei fabbisogni standard, il residuo positivo resterà a disposizione della regione.
- Al contrario, se il residuo fosse negativo, si prevede un meccanismo di revisione del finanziamento.
Come si è visto nell’articolo precedente (21 giugno), il gran numero di materie (pressoché tutte) su cui si dovrebbe esercitare l’autonomia differenziata, secondo le richieste delle tre Regioni (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna) che hanno avviato il processo, comporta il serio rischio che le regioni “differenziate” si trasformino di fatto in regioni a statuto speciale. L’analogia si conferma in pieno se si guarda al finanziamento delle funzioni trasferite.
Per avere un’idea del volume di risorse in gioco, tra le materie interessate quella di gran lunga più rilevante è l’istruzione (in particolare la gestione del personale), con una spesa statale nel 2017 di 27,5 miliardi nel complesso delle regioni a statuto ordinario di cui 9,1 miliardi nelle tre regioni in questione.
Una seconda materia con implicazioni finanziarie importanti è quella del “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”, che comporterebbe il passaggio alla responsabilità regionale dei trasferimenti agli enti locali oggi veicolati dal bilancio dello Stato.
La spesa statale regionalizzata per trasferimenti correnti a comuni e province nel complesso delle regioni a statuto ordinario è stimata in 11,4 miliardi, di cui 3,5 nelle tre Regioni richiedenti.
Tra le materie potenzialmente coinvolte, almeno in parte, nel processo vi sono anche il trasporto locale (9 miliardi, di cui 2,8 nelle tre regioni), l’istruzione universitaria (6,2 miliardi di cui 2,3 nelle tre regioni).
Chi paga
Secondo le bozze di intesa ufficiali, pubblicate a febbraio 2019, le funzioni attribuite dovrebbero essere finanziate con compartecipazioni (e/o riserve di aliquote su tributi erariali). L’aliquota della compartecipazione (ovvero la quota del gettito delle imposte statali raccolte nel territorio che diverrebbe di “proprietà” della regione) sarebbe fissata, una volta per tutte, a un livello tale da garantire un ammontare di risorse pari alla spesa statale attuale.
L’eventuale variazione di gettito maturato nel territorio regionale dei tributi compartecipati rispetto ai fabbisogni standard sarà di competenza della regione. In altre parole, se nel tempo la dinamica dei gettiti sarà maggiore di quella dei fabbisogni standard, il residuo positivo resterà a disposizione della regione.
Al contrario, se il residuo fosse negativo, si prevede un meccanismo di revisione del finanziamento. La criticità deriva dalla divergenza tra l’andamento nel tempo del gettito dei tributi statali e la spesa da finanziare. Per fare un esempio, in quattro anni, dal 2013 al 2017, la crescita cumulata del gettito Iva in Lombardia è stata superiore di dieci punti alla crescita della spesa statale per l’istruzione nella stessa regione.
Dieci punti che dovranno essere compensati o aumentando il disavanzo del bilancio statale o aumentando imposte diverse da quelle compartecipate con aliquota fissa ovvero diminuendo spese, in particolare quelle nelle altre regioni.
Gli investimenti
Una disposizione specifica è dedicata, nelle bozze di intesa ufficiali, al finanziamento degli investimenti pubblici. Anche questi verrebbero finanziate da una compartecipazione, per «consentire una programmazione certa dello sviluppo degli investimenti».
La disponibilità di risorse per gli investimenti infrastrutturali sarebbe quindi determinata dall’andamento nel tempo del gettito del tributo compartecipato raccolto nel territorio e non, come avviene oggi, dalla dimensione e dai criteri di ripartizione dei fondi stanziati dal bilancio dello Stato. E’ un caso emblematico dell’approccio che si sta seguendo.
La stabilità delle risorse trasferite dallo Stato per gli investimenti – il cui volume è oggi deciso su base annuale e la cui ripartizione avviene in ritardo e con criteri mutevoli – è un’esigenza condivisibile ma vale per tutte le regioni.
Ad essa occorre rispondere con soluzioni generali, compatibili con gli equilibri del bilancio pubblico nazionale, che coinvolgano tutte le Regioni (e il Parlamento nazionale) e non con soluzioni particolari che forniscano un’assicurazione contro l’incertezza solo a un gruppo di esse.
Modello statuto speciale
Il modello di finanziamento prefigurato nelle bozze di intesa implica una separazione della finanza pubblica delle regioni ad autonomia differenziata dal resto del Paese. E’ esattamente il modello di finanziamento di cui godono oggi le regioni a statuto speciale, basato appunto su aliquote di compartecipazione fisse (che arrivano al cento per cento) ai tributi erariali. Un modello ovviamente non sostenibile per il complesso del paese.
Lo schema ovvio di finanziamento dovrebbe semmai essere quello oggi adottato per il finanziamento della sanità, dove le aliquote di compartecipazione vengono riviste per mantenere l’evoluzione del volume delle risorse in linea con quella dei fabbisogni di spesa valutati all’interno delle compatibilità generali del bilancio pubblico.
Francamente risibile la tesi, talvolta avanzata nel dibattito, secondo cui la soluzione che replica l’attuale “modello sanità” avrebbe lo svantaggio di indebolire l’incentivo delle regioni ad autonomia differenziata a gestire efficientemente le competenze acquisite, non riconoscendo la partecipazione ai maggiori gettiti, diciamo di Irpef o Iva, che derivano dalla gestione autonoma delle funzioni aggiuntive.
Immaginando, con una bella dose di fantasia, che la dinamica del reddito o dei consumi regionali dipenda principalmente dall’attività della regione nella gestione di servizi quali la sanità o l’istruzione (e, soprattutto che ciò si possa misurare).
Le spese aggiuntive
La lettura delle bozze non ufficiali (circolate a maggio 2019) suggerisce, infine, un’altra questione che conferma quanto si è detto. Tra le richieste delle tre regioni alcune implicano oneri aggiuntivi rispetto alla spesa statale attuale. In particolare, dal lato della spesa: la costituzione di fondi sanitari integrativi regionali, la facoltà di abolire i ticket sanitari, contrattazione collettiva integrativa per il personale della sanità; fondi regionali per l’integrazione dell’organico dell’istruzione e contratti integrativi per il personale esistente; integrazione dell’organico e integrazione salariale per il personale delle Università; istituzione di un fondo per la cassa integrazione regionale e per ulteriori ammortizzatori sociali; forme collettive di previdenza complementare e integrativa e, infine, la «concessione di incentivi, contributi, agevolazioni, sovvenzioni e benefici di ogni genere».
Non sono indicate fonti di finanziamento per queste nuove attività, per le quali naturalmente non esiste una spesa storica statale. Sono tuttavia attività aggiuntive che alcune regioni a statuto speciale già svolgono, finanziandole grazie alle generose compartecipazioni ad aliquota fissa di cui godono.
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