- Il caso Renzi-Report è solo l’ultimo episodio di una strategia che punta a spostare l’attenzione dalle notizie all’identità di chi le ha rivelate.
- Ma secondo la corte di Strasburgo chi parla con i cronisti va tutelato
- Eppure in Italia accade continuamente: dalla trattativa dei leghisti per chiedere soldi a Mosca al caso della loggia Ungheria, la caccia alla fonte diventa sport nazionale
Dopo il calcio lo sport più amato in Italia è la caccia alle fonti dei cronisti autori di indagini indipendenti. Il giornalismo investigativo è un mestiere delicato non tanto per gli argomenti di cui si occupa, ma soprattutto per i rapporti con le fonti, portatrici di informazioni sensibili che riguardano il potere nelle sue più svariate declinazioni: politico, economico, finanziario e anche criminale.
Le persone che decidono di affidare al giornalista documenti riservati sono consapevoli che il rapporto fiduciario è tutelato dall’obbligo deontologico di non svelare le loro identità. Se viene meno questo principio è assai probabile che le informazioni più sgradite al potere restino sconosciute ai cittadini, che però in democrazia hanno il diritto di sapere e di essere informati. Hanno il diritto, cioè, di conoscere quel che i comunicati stampa evitano di rendere pubblico.
Le sentenze
Con una sentenza del primo aprile scorso la corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha per esempio dato ragione a una giornalista ucraina il cui telefono era stato intercettato per mesi con l’obiettivo di scoprire le fonti che le avevano permesso di denunciare un grave scandalo corruttivo interno alla magistratura. La sentenza della corte di Strasburgo conferma la giurisprudenza precedente e ribadisce che la protezione delle fonti è l’essenza della libertà di stampa: senza un’adeguata tutela i giornalisti potrebbero decidere di non pubblicare notizie di rilevante interesse pubblico perché rischierebbero di mettere in pericolo chi le ha rivelate.
Ma, per l’appunto, non è la prima volta che la corte interviene. Il caso più noto è quello del cronista inglese William Goodwin, che ha pubblicato notizie riservate su un’azienda britannica e su uno strano giro di denaro. Le corti inglesi avevano dato ragione alla società che voleva conoscere l’identità delle fonti, Strasburgo ha eretto un muro a protezione del lavoro di indagine del cronista.
Il corollario della sentenza Goodwin è che la magistratura non solo non può chiedere a chi scrive il nome della fonte, ma non può neppure cercare di risalirvi autonomamente o indirettamente, sequestrando materiale, intercettando o raccogliendo notizie. La protezione è dunque massima. Ma non tutti i paesi sembrano aver colto la portata di tali sentenze. In Italia, ad esempio, le interferenze che mettono a rischio la segretezza delle fonti giornalistiche sembrano ormai essere quotidiane.
Il caso Italia
L’ultimo caso è l’inchiesta della trasmissione Report di Rai 3 sull’incontro, nella piazzola di sosta di un autogrill, tra l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi e Marco Mancini, dirigente dei servizi segreti italiani. Le immagini dei due che parlano fitto fitto sono state riprese da un telefonino e poi sono state inviate alla redazione diretta da Sigfrido Ranucci. Dopo la messa in onda del servizio di Giorgio Mottola e Danilo Procaccianti il partito di Renzi, Italia viva, ha scatenato l’agguerrito Luciano Nobili con un’interrogazione parlamentare in cui vengono menzionate strane fatture e pagamenti a società lussemburghesi. A tutto questo Nobili ha aggiunto anche il nome di un manager: Francescomaria Tuccillo. Lanciando il sospetto che fosse lui la fonte. Report ha spiegato che il video è stato girato da una professoressa che si trovava lì casualmente e che aveva riconosciuto Renzi. Per questo ha iniziato a filmarlo. Ma il punto, a ben vedere, non è sapere chi ha dato la notizia a Report, piuttosto se la notizia sia vera.
Il solo fatto che di fronte a un evento documentato (l’incontro c’è stato) si inizi a parlare di fonti e delle loro identità, vuol dire aver già superato il limite indicato dalla corte di Strasburgo. Infatti si parla della genesi della notizia e non della notizia. E l’incontro di Renzi con l’agente segreto viene fagocitato dalla caccia molesta a chi ha fornito le informazioni ai giornalisti di Report.
Renzi e i suoi non sono nuovi a interventi di questo genere. A fine 2019 l’ex premier attaccava i giornalisti autori dello scoop sulla villa di Firenze acquistata grazie a un prestito di un amico e finanziatore (nominato negli anni precedenti in una società pubblica): «Guarda caso dopo che ho criticato la magistratura esce da qualche ufficio giudiziario una cosa di un anno e mezzo fa». Si sbagliava, la procura non c’entrava niente, ma in ogni caso puntava il dito contro le possibili fonti di un giornalista. Perché? Una strategia per offuscare il merito dell’indagine giornalistica, una regola non scritta della controffensiva del protagonista della storia.
Altro caso di scuola italiana: le intercettazioni, agli atti dell’inchiesta di Trapani sulle ong, che hanno interessato alcuni giornalisti. Cronisti che parlavano tra di loro entrando anche nel dettaglio di fatti, scambiandosi contatti e nomi di fonti sul territorio libico. Una grossolana violazione visto che quei dati sensibili, ottenuti da dialoghi di persone neppure sotto inchiesta, sono poi finiti trascritti dalla polizia giudiziaria, consegnati ai magistrati e confluiti nel fascicolo dell’inchiesta.
La richiesta di rivelare le fonti è arrivata anche dopo la pubblicazione della notizia sulla trattativa segreta condotta a Mosca da Gianluca Savoini, braccio destro di Matteo Salvini, per ottenere un finanziamento dai russi in previsione delle elezioni europee. A chiederlo tramite una nota inviata alle agenzie il portavoce di Vladimir Putin, che non era interessato alla trattativa in sé, ma alle fonti usate dai giornalisti. Il contenuto era passato in secondo piano. Ma se dal Cremlino è quasi scontato aspettarsi minacce del genere, incomprensibile è stata la corsa a smascherare la fonte da parte di altri giornalisti, ossessionati dall’identità di chi aveva parlato con gli autori dello scoop.
Arriviamo così ai giorni nostri, il caso della cosiddetta loggia Ungheria e dei verbali del testimone Piero Amara, l’ex legale di Eni implicato in decine di casi corruttivi. C’è stata una fuga di notizie e i verbali sono finiti in due redazioni. I cronisti hanno portato il materiale in procura a Milano e Roma. La denuncia presentata nella capitale avrà effetti quasi immediati, la fonte che ha distribuito i plichi è stata individuata, cioè svelata. Non proprio la protezione di cui parla la corte di Strasburgo.
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