- La proposta dello ius scholae è misura lungamente attesa, che andrebbe a sancire il principio per cui chi nasce e cresce in Italia è italiano, e ha diritto di essere riconosciuto come pienamente appartenente alla collettività nazionale.
- Eppure, ciò che per una parte del parlamento (e del paese) è niente più che la traduzione giuridica di una realtà di fatto, per la schiera degli avversari è addirittura un affronto. Gli argomenti contrari fanno leva sulla retorica delle priorità in conflitto: diritti civili o caro-bollette?
- Ma le obiezioni mirano a nascondere il vero nodo politico, che riguarda la concezione etnica del “popolo”, la pretesa di preservare attraverso la discendenza di sangue i confini della nazione, e di far coincidere con essa il diritto di appartenenza.
Per i partiti della destra, lo ius scholae è «una provocazione». Per centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi stranieri, nati o cresciuti in Italia, è una partita che riguarda la vita. Si misura in questo scarto la distanza tra una politica che arranca sul crinale dei diritti, reso sempre più stretto dalla conflittualità di questo finale di legislatura, e le grandi questioni di giustizia che attendono risposte.
La proposta attualmente in discussione alla Camera, appoggiata da Pd, M5s e Leu, rappresenta l’ultimo di una lunga serie di disegni che negli ultimi trent’anni hanno provato a modificare il testo della legge 91/92 che regola l’acquisizione della cittadinanza italiana. La proposta consentirebbe di ottenerla ai minori, nati in Italia da genitori stranieri o arrivati prima del compimento del dodicesimo anno di età, che abbiano frequentato per almeno cinque anni uno o più cicli scolastici nel paese.
Una misura lungamente attesa, dunque, e una norma minima di civiltà, che andrebbe a sancire – seppure in forma condizionata, quindi imperfetta – il principio per cui chi nasce, cresce, gioca, studia, pratica sport, stringe amicizie, si innamora, insomma vive la sua vita in Italia è italiano, e ha diritto di essere riconosciuto come pienamente appartenente alla collettività nazionale. Eppure, ciò che per una parte del parlamento (e del paese) è niente più che la traduzione giuridica di una realtà di fatto, per la schiera degli avversari è addirittura un affronto. Gli argomenti contrari fanno leva, come di consueto, sulla retorica delle priorità in conflitto: diritti civili o caro-bollette? Favorire i “nuovi italiani” senza cittadinanza o i “vecchi italiani” in crisi occupazionale?
Si tratta, come è chiaro, di argomenti strumentali. Non solo perché non vi è alcuna inconciliabilità, né teorica né pratica, tra partite che si giocano su tavoli diversi. Né solo perché i diritti civili si legano ai diritti sociali, dal momento che aprono le porte a una serie di opportunità e tutele, fungendo anche da contrasto e rimedio a un destino di subalternità socio-economica. Ma soprattutto perché queste obiezioni mirano a nascondere il vero nodo politico, che riguarda la concezione etnica del “popolo”, la pretesa di preservare attraverso la discendenza di sangue i confini della nazione, e di far coincidere con essa il diritto di appartenenza.
La questione di fondo è antica, affonda le radici nella tensione mai risolta tra diritti fondamentali e cittadinanza nazionale, che data fin dal tempo della Rivoluzione francese. Eppure proprio questa storia secolare dovrebbe illuminare le forme di ingiustizia che non appaiono più conciliabili con il principio democratico di uguaglianza e l’universalismo dei diritti.
Nota Luigi Ferrajoli, nel suo Manifesto per l’uguaglianza, come «proprio la cittadinanza, che con la Rivoluzione francese si era affermata come la base dell’uguaglianza politica, si è oggi trasformata nella fonte della più drammatica differenza di status: quella tra cittadini e non cittadini». Perché, mentre i cittadini sono tra loro uguali nei diritti, cittadini e non cittadini sono diseguali come persone. Accade allora che «la cittadinanza, che alle origini dello stato moderno ha svolto un ruolo di inclusione, svolge oggi un ruolo di esclusione», essendosi trasformata nei paesi più ricchi «nell’ultimo privilegio di status» o fattore di «discriminazione per nascita».
Quello cui si aggrappa la destra conservatrice, nella sua ostinata opposizione a riconoscere i figli di residenti stranieri come cittadini, appare insomma come il residuo pre moderno di una visione che fa delle identità personali la base di disuguaglianze giuridiche, dal momento che considera l’appartenenza di sangue come l’unica vera porta d’accesso ai diritti fondamentali.
La storia dell’ideale moderno di cittadinanza è stata invece quella del progressivo riconoscimento di diritti uguali a individui differenti per sesso, etnia, colore della pelle, religione, caratteristiche sociali, opinioni politiche. Un processo che ha abolito i privilegi legati alla nascita, e le gerarchie fondate sulle differenze personali.
Riconoscere oggi la possibilità di una piena appartenenza a ragazzi e ragazze che già vivono in Italia, parlano la lingua, frequentano le scuole, eppure sono costretti a percepirsi e a essere trattati come cittadini di seconda classe, è la strada maestra per restituire al paradigma della cittadinanza la sua forza inclusiva.
© Riproduzione riservata