- La riforma del trasporto pubblico locale che risale a 24 anni fa è fallita come già la precedente; la foresta è rimasta pietrificata.
- L’assegnazione dei servizi tramite gara ha dato buoni risultati a Londra e nell’Europa continentale ma nel lungo periodo ha perso mordente; in Italia le poche gare che hanno visto soccombere l’ex monopolista pubblico hanno portato a strascichi giudiziari interminabili.
- Come proposto dall’Antitrust, sarebbe opportuno sperimentare un modello misto nel quale a forme di attribuzione concorrenziale di diritti esclusivi si accompagnino sempre più segmenti di attività esercitabili in concorrenza.
Immaginate che il Comune di Roma, o quello di Milano, o di Napoli invece di acquistare i computer di cui necessitano i propri uffici tramite una gara d’appalto tra imprese private si rivolgesse in via diretta a una società sotto il proprio controllo. La qualità dei prodotti sarebbe migliore? E il costo inferiore? Pochi, si può immaginare, lo sosterrebbero.
E cosa succederebbe se in un’eventuale procedura di gara per l’acquisto dei prodotti si dovessero confrontare alcune imprese private e una società comunale ossia se l’arbitro rivestisse allo stesso tempo anche i panni del giocatore?
Eppure, quella che ci apparirebbe una stravaganza in altri settori è la normalità in quello del trasporto pubblico locale.
Nel lontanissimo 1997 è stato approvato il decreto Burlando: l’obiettivo era quello di rendere più efficiente il settore, sedici anni dopo il precedente fallimentare tentativo di riforma.
Tra le misure previste vi era l’obbligatorietà del ricorso a procedure di gara per l’affidamento dei servizi. Un quarto di secolo dopo, tra rinvii e procedure addomesticate perché l’incumbent non rischiasse di essere rimpiazzato, la foresta è rimasta pietrificata.
Precedenti illustri
Nulla a che vedere con quanto accaduto nel Regno Unito dove a metà degli anni Ottanta il settore venne rivoltato come un calzino.
A Londra l’ex municipalizzata è stata suddivisa in più unità indipendenti privatizzate in successione nell’arco di un decennio con il divieto per quelle ancora temporaneamente in mano pubblica di partecipare alle gare.
I risultati non si fecero attendere: i costi unitari di produzione che erano cresciuti in termini reali del 75 per cento dal 1970 al 1986 tornarono a fine secolo al livello di partenza. Poi, quel meccanismo si è un po’ inceppato.
Il committente pubblico è divenuto meno occhiuto e le gare sempre meno combattute. Anche nel caso italiano, i rarissimi affidamenti che hanno visto soccombere il monopolista pubblico hanno portato a strascichi giudiziari interminabili. Come già proponeva qualche anno fa l’Autorità Antitrust, per garantire efficienza e minimizzare i rischi regolatori, sarebbe opportuno prendere in considerazione il modello organizzativo applicato fuori della capitale britannica e che prevede un mix di mercato e di pianificazione pubblica dei servizi.
Siamo abituati a pensare che vi sia un legame molto stretto, quasi necessitato, tra fornitura di servizi di trasporto collettivo e programmazione dall’alto dei servizi con previsione di elevati sussidi. Ma non è così.
Sulle lunghe distanze la maggior parte dei servizi collettivi, su autobus e aereo, vengono forniti dal mercato. E sono quelli che soddisfano la quota più rilevante delle esigenze di mobilità delle persone a reddito più basso, mentre i ricavi da traffico coprono solo in parte i costi di quelli ferroviari la cui utenza è in parte rilevante costituita da persone di reddito medio-alto. L’ambito urbano ha caratteristiche diverse ma l’esperienza britannica mostra come una parte consistente di offerta, nel caso specifico intorno all’80 per cento, possa essere prodotta anch’essa nel mercato.
Nelle aree metropolitane inglesi il costo unitario di produzione del servizio si attesta oggi intorno a 2,8 euro, all’incirca la metà di quello che si registra in realtà paragonabili in Italia. Questo implica, come ovvio, dimezzare il numero di utenti che rende il servizio profittevole.
Il ruolo dello stato
Il ruolo del soggetto pubblico viene così limitato all’integrazione dell’offerta negli orari e nelle zone a minore domanda dove il servizio non verrebbe prodotto su base commerciale con assegnazione del sussidio su base competitiva e al rimborso delle aziende per i servizi forniti a specifiche categorie di utenti a tariffe ridotte rispetto al prezzo di mercato. Sarebbe un modello vantaggioso soprattutto per i contribuenti che oggi sopportano l’onere maggiore, oltre i due terzi, dei costi di produzione.
Ma è assai improbabile che accada nonostante la parola concorrenza appaia per ben quarantadue volte nel Pnrr. A perdere sarebbero infatti tutti gli interessi particolari che sono avvantaggiati dallo status quo. Da un lato i dipendenti del settore, dall’altro, i fornitori e gli amministratori pro tempore delle città per i quali la proprietà pubblica delle aziende costituisce uno straordinario strumento di consenso politico come testimonia il fatto che l’ostilità alla introduzione di elementi di competizione è trasversale agli schieramenti politici e unisce destra, centro e sinistra che presto dovranno esprimersi sulla legge per la concorrenza attesa in Consiglio dei ministri tra pochi giorni.
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