- Nel 2016 si è compreso che l’elezione del presidente avviene con voto a doppio grado, un sistema largamente praticato tra Settecento e Ottocento, che già Tocqueville giudicò particolarmente efficace.
- Tuttavia due volte nel nostro secolo il risultato non ha corrisposto al voto popolare, in entrambi i casi a favore dei repubblicani, e se nel 2000 il perdente Al Gore aveva ottenuto quasi 51 mila voti in più del vincitore Bush, con uno scarto tra 48,4 per cento e 47,9.
- Nel 2016 il vincitore Trump ha ottenuto quasi tre milioni di voti in meno della perdente Clinton, con uno scarto tra 46,1 per cento e 48,2. L’episodio ha posto seri interrogativi sull’efficacia del sistema.
A coloro che, come me, ritengono gli Stati Uniti un paese democratico, le vicende di quel paese offrono materia per interrogarsi sul funzionamento della democrazia liberale. Essa poggia su tre pilastri: la tutela dei diritti, l’equilibrio tra i poteri, e la rappresentanza. Il sentire comune guarda soprattutto al terzo pilastro: democrazia è quando il popolo governa attraverso libere elezioni. Per la verità, da solo quel pilastro non regge la democrazia, ma è questo soltanto che considero qui, anche perché le elezioni del 3 novembre lo pongono all’attenzione del mondo.
Il sistema in dubbio
Gli osservatori europei si sono fatti oggi più attenti al sistema americano. Nel 2016 si è compreso che l’elezione del presidente avviene con voto a doppio grado, un sistema largamente praticato tra Settecneto e Ottocento, che già Tocqueville giudicò particolarmente efficace. Tuttavia due volte nel nostro secolo il risultato non ha corrisposto al voto popolare, in entrambi i casi a favore dei repubblicani, e se nel 2000 il perdente Al Gore aveva ottenuto quasi 51 mila voti in più del vincitore Bush, con uno scarto tra 48,4 per cento e 47,9, nel 2016 il vincitore Trump ha ottenuto quasi tre milioni di voti in meno della perdente Clinton, con uno scarto tra 46,1 per cento e 48,2. L’episodio ha posto seri interrogativi sull’efficacia del sistema.
Da qui dunque possiamo partire. Con rigida, inderogabile cadenza (non è previsto lo scioglimento delle camere), ogni quattro anni, in un giorno prefissato, si svolgono insieme le elezioni per il rinnovo della Camera dei rappresentanti, per un terzo del Senato e per il ticket: il presidente e il vice. A eleggere il ticket è un collegio appositamente costituito, l’Electoral college, formato dai delegati che gli stati hanno eletto in numero pari a quello dei loro rappresentanti al Congresso (ma senza includere alcuno di essi).
I delegati dichiarano il ticket per il quale si presentano e sono eletti dai cittadini. In tal modo si puo’ dire che si tratti di una elezione “diretta” (anche se in teoria i delegati non sono tenuti ad osservare il mandato). Si noti che i delegati non costituiscono un’assemblea: non si riuniscono, non discutono, e inviano la loro scelta in busta chiusa. Qui sta il pregio del sistema elogiato da Tocqueville.
In realtà il sistema oggi nasconde molte insidie. Ai sensi della costituzione tocca agli stati decidere i modi del voto, e in tutti gli stati (eccetto Maine e Nebraska) si vota con voto maggioritario secco (chiamato first-past-the post, oppure the winner takes all). Ora, il maggioritario funziona laddove esiste una certa omogeneità “comunitaria”, cosa che poteva essere nella fase di fondazione, con popolazioni poco numerose, omogenee e bianche. Nel corso di due secoli, le varie immigrazioni, lo sviluppo economico, e sopra ogni cosa l’ingresso dei neri nell’agone elettorale lentamente attuato nel corso di un secolo, tra 1865 e 1965, hanno profondamente diversificato la composizione sociale, etnica e culturale dell’elettorato di contea. Ed è su questa diversità che agiscono gli effetti distorsivi del sistema.
Già nel 1812 Elbridge Gerry, governatore del Massachussets, disegnò a suo favore un collegio elettorale in tal modo che venne ad assomigliare a una salamandra: da qui il termine “gerrymandering”, che poi è rimasto. Sono infatti gli stati che ogni dieci anni ridisegnano i collegi, e molti favoriscono il partito al governo, sia disperdendo tra più collegi l’elettorato avverso, sia concentrando il proprio. Si cancella così una buona parte dell’elettorato, che non ha più voce.
Si tratta di milioni di elettori; è stato calcolato che a partire dal 2010 ben 59 seggi sono stati “trasferiti” da un partito all’altro: 20 a favore dei democratici e 39 a favore dei repubblicani.
Non tutti gli stati sono uguali
Mentre ogni stato manda al Congresso due senatori indipendentemente dalla sua dimensione, come è proprio dei sistemi federali, il numero dei rappresentanti – e quindi anche quello dei delegati nell’electoral college – riflette la popolazione censita: la sola California nomina 55 elettori, il Texas 38, New York e Florida 29, mentre i sei stati più piccoli ne mandano tre ciascuno. Su un totale di 538 delegati, per vincere il ticket deve ottenerne 270. Ed è a questo numero che tutto il mondo guarderà la notte del 3 novembre.
Contano dunque gli stati maggiori. Alcuni dei quali sono già solidamente orientati (ad esempio California e New York sono democratici). Ne consegue che la campagna dei candidati presidenti si concentra sulla quindicina di maggiori “swing states”, gli stati incerti. Uno studio ha mostrato che nel 2004 i candidati hanno dedicato tre quarti della campagna a cinque stati soltanto, e che non hanno mai visitato 18 stati, dove non è stata promossa alcuna campagna televisiva. Nel 2016 i 14 stati hanno assorbito il 99% delle spese elettorali.
Sono questi gli stati che eleggono il presidente. E che evidentemente non rappresentano l’intero paese. Un solo esempio: l’industria dell’energia solare ha 7,5 volte gli addetti dell’industria carbonifera, ma nessuno se ne occupa perché è localizzata in California e Texas, mentre molta attenzione è rivolta agli ultimi 55.000 minatori del carbone che vivono nei swing states.
>Non mancano singole proposte e comitati intesi a correggere queste distorsioni. Si potrebbe ad esempio cambiare la costituzione. Ma per farlo occorrono i voi di tre quarti degli stati. Si puo’ tentare di far dichiarare incostituzionale il sistema, e già in cinque stati è stata avviata la procedura. Più efficace sarebbe il progetto del National Popular Vote Interstate Compact (NPVIC): un accordo tra gli stati per il quale i voti popolari andrebbero tutti al candidato che a livello federale avesse vinto il voto popolare.
Entrerebbe in funzione quando vi avesse aderito un numero di stati tale da rappresentare la maggioranza necessaria ad eleggere il presidente. Ad oggi lo hanno approvato 15 stati (e il Distretto di Columbia), i quali dispongono di 196 voti elettorali, ovvero del 36% del Collegio elettorale e del 73% dei 270 voti che sarebbero necessari per imporre il nuovo sistema. Prossimi alla meta? Niente affatto, vedremo perché.
La concentrazione della spesa sui swing states e su singoli settori sociali e produttivi distorce ulteriormente l’elettorato, già decurtato dal sistema maggioritario. La cosa appare particolarmente rilevante quando si pensa che nella campagna elettorale la forma tradizionale dei “town hall meetings” – dove candidati o rappresentanti incontrano le comunità locali - è sovrastata da una capillare presenza televisiva e degli attivisti che richiede ingenti spese. In ogni tempo e in ogni luogo farsi eleggere è costoso.
Ma negli Stati Uniti il costo della campagna ha raggiunto livelli tali che all’indomani della sua elezione un membro del congresso si occupa soltanto di accumulare i finanziamenti per essere confermato e trascura i legami col collegio. E poiché lo stipendio di un parlamentare non è confrontabile con le risorse accumulate dai lobbyisti, egli tenderà ad usare le sue reti di relazioni per diventare a sua volta lobbyista. Più di una ricerca empirica ha verificato questo fenomeno.
La distorsione dei soldi
Parliamo allora di costi. Negli Stati Uniti l’attività politica non riceve finanziamenti pubblici ma è sostenuta dalla liberalità privata. Fin dagli inizi del Novecento, all’epoca dei grandi cartelli e delle leggi antitrust, limitazioni sono state stabilite per i versamenti degli enti, corporations o sindacati, per evitare che corrompano, o comunque condizionino la competizione elettorale.
Dopo la seconda guerra mondiale si sono allora formati dei Political Action Committees (PACs), comitati che se ricevono, e spendono, almeno mille dollari per finanziare la campagna, si devono registrare presso una apposita commissione federale, o statale. Ne esistono decine di migliaia. Due leggi, nel 1971 e nel 2002, hanno chiarito che corporations e sindacati non possono usare i propri fondi per “comunicazioni elettorali” nei trenta giorni precedenti le primarie o sessanta prima delle elezioni.
Ma il 21 gennaio 2010 la Corte Suprema ha deliberato che i limiti posti dalla legge del 2002 violavano il primo emendamento sulla libertà di parola: in sostanza, riversare capitali anonimi nella campagna di un candidato rientra nella libertà di espressione.
E’ stato così tolto ogni controllo ai versamenti dei PACs, e dei cosiddetti Super PACs, che accumulano cifre esorbitanti, sono sottoposti a regole meno rigide e possono ricevere contributi di qualsiasi entità e da chiunque senza obbligo di rivelarne il nome prima delle elezioni. La sentenza, che ha suscitato grandi controversie, è stata accolta trionfalmente da Mitch McConnell, leader dei repubblicani al senato e per anni artefice delle sistematiche azioni di boicottaggio delle amministrazioni democratiche.
L’evoluzione politica degli ultimi decenni, la frattura tra schieramenti, il dispiegarsi di tecniche di boicottaggio parlamentare (filibustering), nonché l’intervento politico nelle nomine di giudici federali e della corte suprema, hanno ulteriormente deformato la rappresentanza. Nell’ipotesi che il 4 novembre vinca il democratico Joe Biden vi sono dunque molti modi con i quali gli stati repubblicani potrebbero tentare, per la prima volta nella storia del paese, di disconoscere il risultato, e comunque di ostacolare il governo democratico.
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